Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2020
Borsa, Mediobanca, Mediaset e Fca: i casi da risolvere nel 2020
Il 2020 eredita le partite della finanza abbozzate nel 2019, ma anche quelle che si trascinano da anni. Nei prossimi mesi comunque dovrebbero chiarirsi meglio i destini di due dei simboli del capitalismo milanese – la Borsa e Mediobanca – che stanno cercando di ritagliarsi un futuro in un mondo che cambia.
Borsa Italiana
Piazza Affari è stata tra le prime in Europa a sposare un percorso di aggregazione, fondendosi con il London Stock Exchange. Ma negli oltre 12 anni che sono trascorsi da allora il listino della City non è riuscito ad andare oltre a Milano, fallendo i tentativi di combinazione con Deutsche Boerse – che pure sono stati più d’uno – e non riuscendo (o forse nemmeno volendo) a diventare un polo aggregante come ha fatto Parigi con la formula federativa di Euronext.
Fatto sta che Londra si è lasciata alle spalle le fusioni tra mercati per gettarsi nel business dei dati, con l’acquisizione di Refinitiv, impegnativa sia sotto il profilo finanziario – 27 miliardi di dollari tra equity e debito – che sotto quello culturale perché di fatto sposterà il baricentro del gruppo. Legittimo porsi la domanda di che ruolo avrà Piazza Affari in questo contesto, dove l’intermediazione non sarà più il business centrale. Tanto più che la domanda se la sono posta anche le autorità italiane che da un paio d’anni stanno monitorando con maggior attenzione le vicende che riguardano i mercati. Da una parte, c’è una maggior consapevolezza della strategicità di queste infrastrutture (anche ai fini della sicurezza nazionale), dall’altra c’è l’incognita Brexit, che quest’anno diventerà un fatto compiuto.
Ma mentre l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, secondo gli esperti, non è un evento in grado di attivare il golden power, l’acquisizione di Refinitiv invece dovrà essere probabilmente notificata anche al Governo italiano. Il gruppo Borsa italiana ha una certa rilevanza per il Paese, non solo perché dispone di asset eccellenti, ma anche e soprattutto perché offre un punto di osservazione privilegiato sulle transazioni finanziarie (altrove rivelatosi utile anche in chiave antiterrorismo) e gestisce il debito pubblico italiano tramite Mts, il mercato all’ingrosso dei titoli di Stato. A Piazza Affari coi suoi satelliti guarda con attenzione Euronext che, prima dell’ingresso di Borsa Spa nel gruppo Lseg, era in condominio in Mts e aveva tentato anche di aggregare Milano. Con la Borsa di Madrid, che ha già detto sì alle avance degli svizzeri, non è cosa e così il listino federale centrato su Parigi potrebbe far rotta direttamente su Borsa italiana, come ha già fatto sapere a più riprese sia in pubblico che in privato. Anche se non ci sono conferme, un’altra pista porta a Sia e al suo azionista Cdp. Ma per ora il messaggio che è arriva da Londra non pare aprire spiragli: «Non abbiamo bisogno di cedere asset per finanziare l’acquisizione di Refinitiv e comunque Borsa italiana non è in vendita».
Mediobanca
In un’altra piazza milanese poco distante, dove ha sede Mediobanca, le acque sembrano essersi calmate dopo l’autunno caldo che ha visto un milanese d’adozione, Leonardo Del Vecchio, mettere a segno una quasi-scalata: in poco più di un mese ha rastrellato il rastrellabile, fermandosi alla soglia del 10%, per superare la quale è necessario il benestare della Bce. In un batter d’occhio Mr Luxottica è diventato il primo azionista, mentre il patto di sindacato si ridimensionava al 12,5% con l’uscita quasi in contemporanea di UniCredit dal capitale. Del resto il “liberi tutti” era stato ufficializzato già da oltre un anno, quando l’accordo era stato depotenziato a un mero patto di consultazione. Ne aveva approfittato Vincent Bolloré per sganciarsi, senza che fossero del tutto chiare le sue intenzioni.
Fatto sta che Del Vecchio ha lasciato passare senza sgambetti l’assemblea di bilancio del 28 ottobre e subito dopo, almeno a parole, ha pure benedetto il piano industriale dell’ad Alberto Nagel, che per il triennio è in linea di continuità con il passato. L’intenzione di salire oltre il 10%, anche se ufficialmente non è mai stata confermata, pare ci sia ancora, ma per Delfin, la holding lussemburghese di Del Vecchio, non sarà una passeggiata. Tanto più che la Consob sta indagando sulla mini-scalata e la procura di Milano ha pure aperto un dossier, anche se senza indagati né capi d’accusa. Qualcosa probabilmente succederà prima dell’assemblea di ottobre dove Nagel – con il presidente Renato Pagliaro, terza generazione manageriale dell’istituto fondato da Enrico Cuccia – si presenterà al rinnovo dell’intero consiglio per un altro mandato.
Del Vecchio per ora non si è fatto avanti neppure con il patto di cui Ennio Doris, con Mediolanum, è diventato il primo azionista. La lista di maggioranza questa volta la proporrà il consiglio, ma quattro posti oggi sono occupati da consiglieri espressi da UniCredit e da Bolloré, posti ai quali potrebbe aspirare del Vecchio che vorrebbe anche avere maggior voce in capitolo su Generali. Non c’è più la ragnatela di partecipazioni incrociate, ma Piazzetta Cuccia conserva tuttora una quota del 13% in Generali che finora le ha consentito di presentare la lista di maggioranza per il board. Del Vecchio ha già il 5% della compagnia triestina. Un intreccio che, se fornisce una chiave di lettura delle mosse di Delfin, rende però complicato immaginare il prosieguo.
EssilorLuxottica
L’imprenditore degli occhiali sarà comunque impegnato in proprio su un’altra partita in trasferta. Del Vecchio non è il tipo da rinunciare al comando, tanto più che nella combinazione, ancora da amalgamare, tra Luxottica e Essilor, è il primo azionista con 32,7% del capitale (e per ora il 31% dei diritti di voto). Ma per strappare il sì alla fusione al management francese, orgoglioso di dirigere una public company, il fondatore di Luxottica aveva accettato una governance paritaria che vale fino alla primavera del 2021. Ora è in atto un confronto strisciante per la scelta del ceo del gruppo, che il patron di Luxottica vorrebbe rinviare al momento in cui non dovrà più scendere a patti. Ma per quieto vivere, e per la spinta di un gruppo di fondi che reclama la designazione di un amministratore delegato “indipendente”, ha dovuto accettare un compromesso: per ora le due parti hanno indicato due head hunter – Russel Reynolds e Eric Salmon – per selezionare i papabili. Le cose però sembrano andare per le lunghe.
Fca-Psa
Chi dovrà discutere di governance con i francesi nell’anno che sta per iniziare è senz’altro John Elkann. Prima di Natale ha firmato l’accordo vincolante con Peugeot, ma da definire ci sono ancora questioni di non poco conto. Lo schema concordato prevede che a guidare il quarto gruppo mondiale dell’auto sarà Carlos Tavares, che ha rimesso in pista la casa francese, mentre presidente sarà Elkann, che in Fca ha un ruolo tutt’altro che di rappresentanza, che intende mantenere. E poi resta da definire il percorso di successione a Tavares, anche se al manager portoghese la carica di ad è assicurata per almeno cinque anni. I francesi vorrebbero mantenere la supremazia numerica nel board – i consiglieri indicati da Exor saranno cinque, sei quelli di Peugeot incluso l’ad, che in teoria dovrebbe essere superpartes – e avere ancora l’ultima parola sulla scelta dell’ad. Ma visto che Exor sarà il primo azionista con il 14,7% qualcosa vorrà pur dire.
Telecom e Mediaset
Nessuno mette invece la mano sul fuoco sul fatto che il 2020 possa essere risolutivo per il groviglio Telecom-Open Fiber-Vivendi-Mediaset. Business differenti, ma partite intrecciate per via del gruppo che fa capo a Vincent Bollorè, che ha messo il piede in due scarpe, primo azionista in Telecom col 23,94% e secondo in Mediaset col 28,8% del capitale. Se queste volevano essere le premesse per mettere insieme tlc e contenuti, l’impresa non è riuscita. Con il gruppo che fa capo alla famiglia Berlusconi è in atto da oltre tre anni un contenzioso sulla mancata compravendita della pay-tv Mediaset Premium. E i tentativi di fare la pace mettendo in mezzo Telecom sono falliti. Bolloré ha contestato le leggi italiane che impediscono la commistione tra i due gruppi, ma a sollevare la questione è stato proprio il mancato alleato che ha tentato di scalare.
Dalla sua Telecom – che si ritrova col primo azionista finito in minoranza nel board per l’intervento del fondo attivista Elliott e col secondo azionista, la Cdp, che non è nemmeno rappresentata in cda – è alle prese con il rebus “rete unica”, il tentativo di mettere insieme l’infrastruttura dell’incumbent con quella dello sfidante. Ma in Enel, che ha il 50% di Open Fiber (il restante 50% è della Cdp), pare considerino superata l’ipotesi di uscire dalla partita vendendo.