Il Messaggero, 3 gennaio 2020
Intervista a Delfina Delettrez (Fendi)
Delfina Delettrez, 32 anni quarta generazione Fendi, è una presenza incantata. Quando c’è, spande nell’atmosfera un profumo Nocturno Tropical, come nella foto postata qualche giorno fa su Instagram da L’Avana, dove ha appena trascorso le festività.
Disinvolta nei suoi gioielli, celata dietro gli occhi bistrati di verde metallico, è un’idea di femminilità primitiva, sofisticata, calda e algida insieme. Nel 2007, a diciannove anni, fonda il brand di alta gioielleria Delfina Delettrez. Nel 2010, due sue creazioni integrano la collezione permanente del Museo di Arti Decorative di Parigi. Nell’ultima, «Two in One», che associa piercing e perle, classico e punk, una ragazza, con irriverente e filosofica comicità, buca il diamante di nonna, invece che la sua pelle.
Come descriverebbe il suo brand?
«Non mi paragono a nessun marchio di gioielli e non è un caso che la mia nuova boutique non si trovi a Via Condotti, accanto ai nomi che rispetto e ammiro della gioielleria tradizionale. Il mio brand ribalta i codici tradizionali della gioielleria».
Che sarebbero?
«Il concetto di gioielleria è sempre quello di addizione, costruzione. Nel mio universo è l’opposto, mi focalizzo sulla pietra in sé, provo a metterla sotto un riflettore affinché lo scheletro del gioiello sia il più inesistente possibile».
Le pietre sembrano fluttuare
«Se si pensa alla gioielleria viene in mente qualcosa di pesante. Mi piace creare gioielli leggeri, sottili, che sfidano le leggi della materia. Specialmente i miei orecchini e anelli piercing hanno una base sottilissima.
Quanto conta la tecnologia nel suo lavoro?
«Uso materiali nobili come l’oro e il platino, con materiali più industriali come il titanio, ultraleggero e ultraresistente. Mi diverte anche ribaltare il concetto delle perle».
Non sono borghesi le perle?
«Sono orecchini da prima comunione associati a forme che ricordano il piercing all’ombelico. Gli orecchini sono venduti singolarmente, per dare libertà di personalizzazione. A volte la perla diventa funzione, un meccanismo a zip che si tramuta in soffia bolle. I gioielli devono essere belli sia indossati che non».
Com’è la donna che indossa Delfina Delettrez?
«Dinamica, ironica, sofisticata. Esce di casa la mattina senza gioielli e alla sera torna che ne è ricoperta perché magari li tiene in borsa. E non in cassaforte».
È cambiato il modo di acquistare gioielli da parte delle donne?
«Prima c’era distanza, spesso il gioiello non lo sceglievi personalmente. Il motivo per cui ho iniziato a interessarmi di gioielleria è proprio questo».
Quale?
«A diciotto anni, quando aspettavo la prima bambina, volevo sentirmi più donna. Ho capito che se volevo indossare dei gioielli dovevo farmeli da me».
C’è un momento in cui ha capito che voleva fare questo lavoro?
«Vedere nascere il primo pezzo è stato un piccolo miracolo. Mi ricordo passavo giornate intere in laboratorio col pancione, in mio corpo era ingovernabile ma lì potevo esercitare il controllo su una materia misteriosa. In atelier mi sono inebriata dell’odore del metallo, la freddezza delle pietre».
Qual è il primo pezzo che ha immaginato?
«Un anello classico, rubino taglio smeraldo. Volevo creare un amuleto di protezione da lasciare a mia figlia. Sono sempre stata affascinata dal gioiello tramandato ma, più che dal gioiello in sé, dalla storia, i gioielli sono portatori silenziosi di storie. Il rubino era tenuto da due mani di scheletro con anelli e bracciali in miniatura. Era bello vedermi col pancione e queste due mani di scheletro, che ti chiedevi: Ma perché?».
Infatti, perché?
«Quando dai vita hai molta più paura della morte. Questo memento mori mi ricordava di stare attaccata alla vita terrena».
Ha difficoltà a comunicare la sua arte?
«Sono stata accolta subito bene dall’industria della moda, mi divertivo a trattare i gioielli come accessori».
La sua è una boutique di alta gioielleria, però.
«I miei punti vendita sono tutti moda. La differenza è che le collezioni non sono stagionali, ma capitoli che si aggiungono l’uno all’altro».
Ha avuto mentori?
«Gli artigiani romani con cui collaboro. Dialoghiamo molto per trovare il modo di sviluppare i miei meccanismi, che li interessano più dell’estetica».
Com’è il suo rapporto col tempo?
«Roma è un orologio architettonico. È così classica che mi piace l’idea di un design proiettato al futuro. È per questo che ho abbandonato l’argento: invecchia. Mi piace pensare che tra duecento anni si possa trovare un mio anello e non capire a che epoca appartiene».
Cosa ha significato essere cresciuta a latte e moda?
«Ci sono pro e contro. Volevo partire da zero, senza pregiudizi. Aver scelto un settore intoccato da Fendi lascia intendere che volevo creare una storia autonoma. Di domenica, nelle riunioni di famiglia, si parlava di progetti futuri e del tempo. Siamo stati sempre una famiglia molto inclusiva, l’età non ha mai contato nulla. L’unica cosa che ha contato, sempre, è il punto di vista».