il Quotidiano del Sud, 2 gennaio 2020
Storia del Presepe
Non svegliate Benino
Ci sono due storie che raccontano la nascita del presepe. Una devozionale e una laica. La prima nasce nell’Italia centrale fra Rieti e Assisi, la seconda a Napoli.
La prima, e la più nota, è nella Legenda di Francesco, una biografia del santo di Assisi scritta in latino nel 1263 da Bonaventura da Bagnoregio: «Il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del Re povero; e, mentre il santo uomo teneva la sua orazione, un cavaliere scorse il vero Gesù Bambino in luogo di quello che il santo aveva portato».
Accadde la notte di Natale del 1223 a Greccio, un paesino in provincia di Rieti. Una settantina di anni più tardi Giotto avrebbe illustrato l’evento nella tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi nella basilica superiore di Assisi.
La scena, oltre che una delle più famose, è anche una delle più sorprendenti. Raffigura l’interno di una chiesa vista dal presbiterio, la parte di solito riservata ai religiosi. In primo piano, Francesco prende in braccio il Bambino sollevandolo dalla mangiatoia. Oltre l’ambone si vedono i frati che cantano. Nella navata, una folla di uomini. Nel vano di una porta laterale si accalcano le donne, che non hanno il permesso di entrare. Il tabernacolo sopra l’altare è inghirlandato per la festa del Natale.
In primissimo piano, più piccoli addirittura del Bambino, il bue e l’asino. Così piccoli che sembrano entrare timidamente nella scena, quasi con timore. Forse perché nel Vangelo non si parla di loro. Si racconta che Gesù fu deposto nella mangiatoia, dentro una stalla. In latino la mangiatoia si chiamava praesaepe (in Virgilio) o praesaepium (in Plinio). Quest’ultima versione fu ripresa nella traduzione latina del testo della Bibbia, adottata dalla Chiesa e conosciuta come Vulgata, e da lì passò a indicare la sacra rappresentazione della Natività voluta da Francesco.
Fu proprio il santo di Assisi a introdurre per la prima volta i due animali nella stalla, a riscaldare con il loro fiato il neonato. Perché li abbia fatti entrare, lo spiega Benedetto XVI nel suo commovente libro L’infanzia di Gesù (Rizzoli): papa Ratzinger scrive che la mangiatoia è il luogo del nutrimento degli animali. E che il significato della loro presenza si scopre collegando l’antico e il nuovo Testamento, e rileggendo le pagine di Isaia: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». E ricordando le pagine dell’Esodo, dove i due cherubini sul coperchio dell’arca dell’alleanza indicano, e insieme nascondono, la presenza di Dio. Così la mangiatoia diventerebbe in qualche modo l’arca dell’alleanza: accanto ad essa l’umanità, composta da giudei e gentili e priva di comprensione, arriverebbe alla conoscenza di Dio e al perseguimento della pace fra tutte le creature viventi.
Non a caso quando Francesco allestì il primo presepe della storia era tornato da poco dall’Egitto, dove si combatteva la quinta crociata. A Damietta, la città assediata dai cristiani, aveva ottenuto dal legato pontificio il permesso di passare nel campo saraceno per incontrare, disarmato, il sultano al-Malik, nipote di Saladino. Lo scopo era di convertire al cristianesimo il sultano e i suoi soldati, e mettere quindi fine alle ostilità. Il sultano ricevette Francesco con grande cortesia e a sua volta tentò di convertirlo all’Islam. Alla fine ognuno rimase nella propria religione, ma Francesco aveva dato inizio a una teologia del dialogo, a un’ideologia della pace fra tutti i popoli.
La seconda storia, quella laica, racconta che il presepe nasce dal sogno di un piccolo pastore, di nome Benino. La leggenda popolare, diffusa a Napoli e ispirata al passo evangelico che descrive l’annuncio degli angeli ai pastori dormienti, presenta Benino mentre dorme nello stesso presepe che sta sognando. E, poiché quel presepe è il frutto del suo sogno, svegliare Benino vorrebbe dire l’immediata sparizione del presepe.
La leggenda fu ripresa, verso la fine del Seicento, dal librettista gesuita Andrea Perrucci nella sua Cantata dei pastori, che divenne popolarissima nei teatri napoletani.
La scena del primo atto si apriva con il dialogo tra Benino e il padre Armenzio, che lo sveglia da un sogno straordinario in cui ha visto la terra trasformarsi in paradiso. L’ha vista camminando verso la grotta di Betlemme. Perché Benino è anche protagonista del proprio sogno.
Ed è per questo che il pastorello dormiente, sdraiato su un letto di paglia ai piedi di un albero, viene sempre collocato nel punto più alto dello “scoglio”, come viene chiamata a Napoli la scenografia del presepe. Perché la visione di Benino possa seguire i mille viottoli, le discese, i dirupi, e scavallare le colline, e attraversare le vallate, e incrociare gli uomini e le donne, i bambini e gli animali che popolano questo paesaggio, tutti diretti verso la grotta dove sono attesi da Maria, Giuseppe e Gesù.
Eccola, nella Cantata, la visione di Benino: «Mi sembrava che si aprisse il cielo e che, da lassù, piovesse un misto di argento e d’oro. Vedevo la terra diventare d’oro e i prati di smeraldo; i fiori erano pietre preziose, le gocce di brina rilucevano come perle e le colline diamanti; le acque dei ruscelli scorrevano come liquido argento e dalle viti pendevano grappoli di topazi e di rubini; gli alberi producevano frutti preziosi come gemme. E mentre, estasiato, ammiravo tante ricchezze, volgendo lo sguardo a est, verso la buia grotta di Betlemme, mi pareva che sorgesse di là una luce immensa, forte come cento soli».
Al contrario del presepe devozionale di Greccio, quello napoletano, nato nelle chiese, si trasferì presto nelle abitazioni e fu adottato dall’illuminismo. L’intento principale della sacra rappresentazione era di offrire uno spaccato della società dell’epoca. L’età d’oro coincise con l’arrivo in città, nel 1734, di Carlo di Borbone, che si dedicava personalmente alla preparazione dei fondali e della scenografia in cui si svolgeva la Natività, aiutato da una schiera di valletti ai quali impartiva ordini sulla disposizione dei gruppi e dei personaggi. Nobili e borghesi ne seguirono l’esempio, allestendo nelle proprie residenze apparati scenografici degni di un pubblico teatro. I nobili amavano anche farsi replicare in una delle figure, da collocare magari vicino ai Magi, in una sorta di piccolo monumento privato.
Speravano in segreto che il sovrano, sempre curioso di osservare le soluzioni più interessanti, andasse a visitarli.
Le figurine esposte, lavorate dai maestri dell’epoca, erano di raffinata fattura, ingioiellate e vestite di stoffe spesso preziose, come le sete di San Leucio.
Tra i presepi più sfarzosi dell’epoca, è rimasto quello che Michele Cuciniello, architetto, drammaturgo, uomo curioso ed eclettico, aveva ereditato dal padre e che nel 1879 donò al museo di San Martino. Da allora è allestito al piano terra, nella sala che un tempo era la cucina della certosa: cinquanta metri quadrati di “scoglio” affollato da ottocento figurine. Le stesse che affollano il sogno di Benino, dormiente nel suo giaciglio di fieno, sotto una tettoia da cui pendono prosciutti e salami.
lauretta.colonnelli@