Gianluca Marziani per Dagospia, 2 gennaio 2020
UN MARZIANI A ROMA - IL MUSEO DI PALAZZO CIPOLLA OSPITA LA MOSTRA “FOLGORAZIONI E MUTAZIONI” DEDICATA A CORRADO CAGLI - “ERA UN ARTISTA CHE ANDAVA PER CONTO PROPRIO, SEGUENDO UNA VEGGENZA D’INTUITO, UNA CONTROMOSSA AL CONFORMISMO CULTURALE; CHE NON VA CONFUSA CON PROVOCAZIONI E MANIERISMI, PERCHÉ GIAMMAI RICADEVA NELLE FACILONERIE TRIVIALI, NEL GROTTESCO DALLE MOLTE ESCHE, NEL TONO ONIRICO SENZA VIRTÙ SURREALE” -
A Roma le sorprese non finiscono mai e si annidano dietro titoloni a lettere cubitali, oltre le pagine emerse della cronaca e i tomi immersivi della Storia, sotto il rumore superficiale delle vie istituzionali. Per un alieno in missione Capitale, indagare il legame tra la città e le arti visive significa immergersi nei fondali delle zone controverse, sotto titoli e pagine note, laggiù dove si annida il glitch storiografico, quell’errore di valutazione che talvolta sottrae un raro talento dal podio degli eventi.
Corrado Cagli (nato ad Ancona nel 1910) scivolò da vivo in una retroguardia non consona, stilettato di striscio dai colpi incrociati degli idealismi crociani. Fu sottostimato e ambiguamente analizzato, escluso dal pathos accademico dei grandi capi, come fosse una riserva di buon tenore ma senza maglia da fuoriclasse.
La sua incolpevole colpa era l’eccesso d’estro, il suo porsi slittante tra i generi, rompendo la frittata ai sapienti di partito e partite. Solo dagli anni Sessanta, attraverso gli sguardi riparatori di Lorenza Trucchi, Enrico Crispolti e Francesco Poli, Cagli prese la giusta direzione focale. Morì nel 1976 dopo una vita colta e cosmopolita, un esilio negli Stati Uniti per via delle leggi razziali, un’esperienza da soldato nell’esercito americano, il ritorno definitivo in Italia nel 1948 e un gran numero di esperienze espositive.
Merito alla Fondazione Terzo Pilastro per aver supportato questo racconto antologico (“Folgorazioni e Mutazioni”, a cura di Bruno Corà, catalogo Silvana Editoriale), chiarendo l’architettura creativa di un artista prismatico, eclettico per metodo e soluzioni. Il Presidente Avv. Emmanuele F. M. Emanuele, infaticabile e unico nel suo mecenatismo multiforme, ribadisce il ruolo d’indagine della Fondazione su alcuni nodi irrisolti del Novecento, su autori da riposizionare, su vicende che erano state sporcate da derive ideologiche. In un momento che poco concede alle grandi monografiche, Palazzo Cipolla accoglie il pubblico dentro un’oliata macchina organizzativa, un museo in cui la parola “antologica” significa ampiezza visuale, definizione semantica, ordine cronistorico, nitore pedagogico, alto tenore installativo.
Il vostro alieno da Capitale conosce svariati collezionisti che finora hanno ignorato le invenzioni di Cagli, forse spiazzati da quel suo varcare soglie sperimentali, da una facilità al cambiamento che è solo dei genietti insoddisfatti, dei giocatori che azzardano mentre ridefiniscono le regole. Ho girato tre volte nelle sale di Palazzo Cipolla e non potevo credere al succo limpido di un talento così lampante, così complesso e fuggevole, così minuzioso sui dettagli estetici, così ampio nei confini tematici e concettuali.
Difficile, oltretutto, limitarsi al grande pittore quando la mostra svela sculture, disegni, arazzi, bozzetti per costumi e scenografie teatrali, incrociati tra loro in una tessitura che varca le soglie temporali, i confini di una tendenza, le barriere di un metodo. La spiegazione del suo “insuccesso di fama” sta proprio nella fuga istintiva dal rituale d’appartenenza, da ogni gabbia univoca e troppo specifica. Cagli andava per conto proprio, seguendo una veggenza d’intuito, una contromossa al conformismo culturale; che non va confusa con provocazioni e manierismi, perché l’autore giammai ricadeva nelle facilonerie triviali, nel grottesco dalle molte esche, nel tono onirico senza virtù surreale.
Sia chiaro, non gli mancarono successi e guadagni, conoscenze e occasioni eccellenti, anche se certi diktat ideologici pesavano eccome. Oggi, con la giusta distanza del nuovo millennio, scompare la nebbia e la costellazione torna limpida: il muralismo e la ceramica tra le prime passioni, le belle personali in gallerie e musei, diverse Biennali veneziane Triennali milanesi e Quadriennali romane, le collaborazioni con i grandi teatri d’opera, il successo in territorio statunitense, l’apprezzamento per i suoi scritti teorici, le commissioni e le consulenze, le opere pubbliche come il Memoriale di Gottinga, la creazione con Balanchine di The Ballet Society… piccoli e grandi tasselli di una narrazione avvincente e internazionale, un esperanto visivo che cuciva assieme il ritmo del giusto presente con il rito della necessaria memoria.
Negli anni Trenta lo scopriamo arcadico e mitologico, intriso di affreschi pompeiani e pitture parietali, dedito a un ordine formale che plasmava corpi erotici, tra grecità platoniche e arruolamenti omerici. Sono anni in cui sperimentava le prime nature morte, degne cugine del miglior Carrà ma proiettate in un personale teatro degli oggetti, tra echi scenografici e carni vive, metafisiche di metafora e virtù prosaiche.
Sempre nei Trenta reinventava le vedute romane con spirito alla Savinio ma facendo sua la magia del tempo mentale, creando un palcoscenico volante dentro le rovine già postmoderne dei Fori. Sembrava intuire il destino turistico della Roma odierna, il fondale archeologico come quinta da teatro mimetico, quasi a evocare la Transavanguardia che sarebbe giunta quarant’anni dopo. Se mi concedete una battuta, direi che Sandro Chia dovrebbe pagare qualche royalties simbolica a Cagli.
E non solo lui, vi basti guardare gli intrecci di linee nere che evocavano scheletri robotici, un’intuizione del 1949 in cui l’astrazione gestuale nascondeva un suo bozzolo da linguaggio binario, una coscienza digitale del prossimo futuro. Così anche i lavori somiglianti a carte stropicciate, un esercizio di concetto che ho ritrovato in Alighiero Boetti ieri e in Eddie Peake oggi. O ancora le pitture cellulari degli anni Settanta, sorta di fluorescenze random in bianconero, elaborate sullo schema ritmico degli alveari.
Del suo tenore anomalo se ne accorse nel 1951 il sommo Emilio Villa, sottolineando l’innovazione spontanea, la complessità oltre la metafisica, il suo essere fuori dal dilemma tra astratti e figurativi. Ripensiamo anche alle sculture del nostro: cosmiche e sfuggenti come la sua pittura, proiettate nello spazio d’accoglienza, forme mineralizzate che integravano la scienza dentro la coscienza ideativa, ambiziose nel loro ingigantirsi sui palcoscenici teatrali. Per tutti noi che amiamo la potenza arcaica di Antony Gormley, diciamo che il nostro Cagli aveva intuito alcune cose qualche decennio prima del britannico. Confrontare per credere.
Cagli sperimentò per filoni tematici, ribadendo un legame simbiotico tra lo strumento tecnologico e il contenuto figurativo. Per lui l’opera era una sfida linguistica, un sistema biodinamico che rileggeva i propri riferimenti culturali, i temi letterari, la cultura classica, le passioni intime. Qualcuno l’accusò di guardare troppo certi maestri, da Carrà a Morandi, da de Chirico a Oppo; in realtà, rivedendo l’arco della sua parabola, si trattava di brevi dialoghi ad alta frequenza visiva, una connessione tattile e tattica per definire il multiverso dell’arte, la sua natura prismatica e mai definitiva.
Cagli riconosceva ai maestri l’imprimatur ideativo ma, al contempo, agiva con l’attitudine che oggi chiamiamo fluida; in altre parole, stabiliva sintonie d’esercizio linguistico, applicando variazioni personali su archetipi altrui, cambiando parole visive dentro la frase iniziale, così da azionare la citazione e farla sua, a conferma di quanto complessa fosse la sua idea di mimesi e proliferazione.
Non dimentichiamo che alcuni artisti inventano dal punto zero, aprendo porte su strade inesplorate; mentre altri osservano la porta appena dischiusa, entrando subito dopo, guardando l’approccio dell’apripista, capendone pregi e difetti, movendo il motore semantico dentro l’archetipo. Qualche volta, lo insegna la Storia, coloro che sono giunti subito dopo hanno ampliato la qualità di un’epoca, aggiungendo lo spiazzante, l’inaspettato, la seconda origine. Sono loro gli artisti che reinventano l’invenzione, contribuendo con modi unici alla complessità granulare di un periodo storico.