il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2020
L’arte dell’evasione, da Kappler a El Chapo
Ferragosto 1977. Quando le autorità italiane dissero che l’ex ufficiale delle Ss Herbert Kappler, il boia della Fosse Ardeatine, era evaso dall’ospedale militare Celio di Roma in modo rocambolesco, prima calato con delle corde da una finestra che stava a 17 metri d’altezza, poi, una volta fuori dell’ospedale, nascosto dentro una valigia Samsonite, pochi ci credettero, perché era roba da Vallanzasca, audace fugaiolo, non da settantenne male in arnese che infatti morirà un paio d’anni dopo. Era non solo una fuga, ma un miserabile affronto verso una comunità che aveva sofferto le disumane rappresaglie dei nazisti e che pretendeva giustizia. Non una fuga per la vittoria, o per scampare ai lager, ai gulag, ai soprusi, all’ingiustizia o più semplicemente per sfuggire ai mandati di cattura, o per evadere di galera. Era una brutta, ignobile storia, piena di bugie, come si scoprirà troppi anni dopo… altro che valigia. Così come oggi ce l’hanno spacciata per la fuga del manager Ghosn, ficcato dentro il contenitore di un contrabbasso. Nulla a che vedere con le magnifiche evasioni musicali di Bach, che compose l’arte della fuga. E men che mai con le imprese eroiche e solitarie dell’uomo solo al comando, in fuga per ore in sella ad una bicicletta, come sapeva fare Fausto Coppi, il campione in fuga “da se stesso”, secondo Gianni Brera che gli fece così l’elogio funebre.
Houdini trasformò l’arte della fuga in mestiere e spettacolo. Il cinema rese celebri quelle da Alcatraz, simbolo della prigione più disumana. Fughe che diventano romanzi popolari, storie accattivanti e, in molti casi, di riscatto e vendetta: l’archetipo è il Conte di Montecristo. Fantasia, creatività, sfrontatezza accompagnano i grandi fuggitivi. Come Giacomo Casanova, il quale raccontò la sua perigliosa fuga dai Piombi di Venezia. O il tenace Papillon, al secolo Henri Charrière, che riuscì a scappare dall’Isola del Diavolo, dopo numerosi tentativi falliti e puniti duramente.
I media vanno a nozze, quando si tratta di fughe. El Chapo, per esempio, al secolo il narcotrafficante Joaquim Guzman, si fa costruire un tunnel di un chilometro e mezzo, con tanto di binari e moto che corre sulle rotaie. Nel luglio del 2015 scappa dal penitenziario di massima sicurezza che non aveva mai subito un’evasione: il buco della fuga è nella doccia, unico spazio della sua cella di isolamento senza copertura video per motivi di privacy, e sparisce, calandosi dal buco giù per dieci metri, con una scala a pioli, prima di raggiungere, tramite una galleria di collegamento, il tunnel.
Il bandito Graziano Mesina è il recordman delle evasioni: ventidue tentate. Ce la fa dieci volte. Durante un trasferimento in treno, beffò chi lo doveva sorvegliare. Però se ne pentì e si costituì. Lui sfruttava le distrazioni dei secondini, escogitava trucchi, usava camuffamenti. Il repertorio del fuggitivo è infinito. Dalle armi finte di sapone e legno colorato, alle lenzuola per calarsi dalle celle, sino agli elicotteri. Il rapinatore Pascal Payet vola via nel 2001, nel 2003 aiuta altri detenuti a far lo stesso con un elicottero noleggiato a Cannes, infine, dopo essere stato arrestato, nel 2007, ripete il colpo, durante i festeggiamenti del 14 luglio. Pure Licio Gelli fuggì in elicottero, la notte tra il 9 e il 10 agosto 1983, dopo essere uscito tranquillamente dal supercarcere di Champdollon, fuori Ginevra, grazie a 20mila franchi intascati dal secondino Edouard Ceresa e a 15mila per pagare il volo fino a Monaco. Gli svizzeri non gli contestarono l’evasione, in quanto diritto riconosciuto ai detenuti. Basta, non violare la legge. Gelli senza usare falsa identità. Ma processarono per corruzione Ceresa.