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 2020  gennaio 02 Giovedì calendario

Un volo Roma-Los Angeles per capire la crisi Alitalia

All’improvviso l’aereo, un Boeing 777, in volo sopra la Francia, inizia a virare: invece che puntare verso Los Angeles, inizia a tornare verso Roma. Soltanto dopo qualche minuto arriva la conferma dal personale Alitalia: c’è un guasto tecnico, bisogna atterrare. L’origine del problema: non c’è acqua nei bagni. Noi passeggeri ci eravamo già accorti del problema appena dopo la partenza, gli steward avevano offerto una soluzione ruspante, offrivano acqua in bottiglia per lavarsi le mani. Risultato: dopo poco è finita pure quella. Come è possibile che un volo intercontinentale con davanti 13 ore di tratta possa decollare senza che ci sia acqua a bordo?
Le informazioni che si raccolgono a bordo sono frammentarie e contraddittorie: uno steward dice che alla partenza tutto funzionava, un altro ipotizza che ci sia un legame con l’arrivo del nuovo super commissario unico di Alitalia Giuseppe Leogrande e con una ulteriore stretta sulle spese. Un terzo steward dice che bisogna atterrare perché “è come con i computer, spegni e riaccendi e spesso torna tutto a posto”.
Lo stato del Boeing 777 di quella che una volta si chiamava “compagnia di bandiera” non è proprio rassicurante: le coperture laterali di plastica dei sedili si staccano e penzolano nel corridoio (basta un colpetto e tornano a posto), i sedili sono più rigidi di quelli Ryanair. Devo essere molto sfortunato: il mio poggiatesta si stacca, qualcuno ha perso uno dei due pistoncini di metallo che lo sorreggono, trasformando la ricerca di una posizione confortevole in una tortura e il poggiatesta medesimo in un oggetto contundente e affilato. Una eccezione? Non sembra, quando lo steward scopre che invece il sedile accanto al mio è a posto, commenta: “Strano, di solito sono rotti”. Con queste premesse, l’incidente fa correre brividi tra i passeggeri.
L’esperienza permette almeno di risolvere un grande mistero: la vera origine delle famose scie chimiche. L’aereo non può atterrare con un peso superiore a quello previsto e, quindi, deve scaricare in aria (“nebulizzare” è il termine tecnico) tonnellate di carburante, un volo di 13 ore ne è durate due. Una volta a Fiumicino, la versione di un portavoce dell’azienda è questa: alla partenza il serbatoio dell’acqua è stato regolarmente riempito, c’è una valvola che si chiude quando si decolla, quando è stata riaperta una volta in quota il personale di bordo ha scoperto che l’acqua c’era ma non si riusciva a distribuirla nell’aeromobile.
“In ogni caso Alitalia è tra le compagnie più puntuali d’Europa e in regola con tutti i controlli, se c’è una cosa che non si può contestare all’azienda è il rispetto di tutte le procedure di sicurezza”, assicura il portavoce. Magra consolazione, perché ancora non è finita.
Di ritorno a Fiumicino, noi passeggeri veniamo indirizzati a un ristorante dove almeno possiamo ottenere un piatto di pasta. I passeggeri americani sono un po’ confusi, perché le comunicazioni sono rade e poco chiare. Dopo un’oretta, si avvicina un americano: “Penso che anche voi foste sul volo per Los Angeles, non so se lo sapete ma hanno trovato un altro aereo e dovremmo partire alle 16.30”. Utile informazione, perché nessun addetto di Alitalia si era ancora premurato di farcelo sapere. Si affidano al passaparola.
Una volta ottenuta la nuova carta di imbarco, si apre un’altra questione: le coincidenze. Alcuni passeggeri hanno voli da Los Angeles, che perderanno, altri hanno prenotato auto a noleggio o treni. I primi avranno l’albergo pagato, gli altri no. “Siamo legalmente obbligati a pagare l’hotel soltanto a chi ha comprato il secondo volo con la stessa prenotazione, gli altri possono conservare la carta di imbarco e poi andare sulla sezione reclami del sito, a volte i guasti tecnici danno diritto a un rimborso, a volte no, nel dubbio provate”, spiega una assistente di Alitalia con in testa un cappellino di cartone che augura Happy New Year ai passeggeri fuoriosi.
È sempre sbagliato generalizzare esperienze individuali. Un volo sfortunato non è sempre rappresentativo della qualità del servizio di una intera azienda. Ma l’impressione generale è che in una azienda che vuole tenersi stretti i clienti certe cose non succederebbero. O quantomeno gli episodi sfortunati verrebbero affrontati con spirito meno ministeriale e più mirato a mitigare lo scontento del cliente deluso. Ma anche se al passeggero frustrato costa fatica, a mettersi nei panni di un dipendente Alitalia si capiscono le ragioni di certi comportamenti: una azienda senza amministratore delegato, guidata da un commissario che non si sa se deve chiuderla, rilanciarla o venderla, nessuno ha davvero incentivo a fare più del minimo indispensabile.
Il problema, insomma, non è (solo) del personale, ma soprattutto dei governi (Renzi – Gentiloni – Conte I – Conte II) che hanno prorogato artificialmente la vita di una compagnia che non riesce più a stare sul mercato da sola, ma sopravvive grazie ai prestiti ponte. Oltre 1,3 miliardi di euro di fondi pubblici che non torneranno mai indietro.
Non sono bastati neppure per far arrivare l’acqua nei bagni, figurarsi per rilanciare l’azienda.