Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2020
I 20 anni di Putin al potere
«Vi chiedo perdono per i sogni non realizzati, le speranze ingiustificate», disse Boris Eltsin la notte in cui si fece da parte. Metteva l’accento sugli errori, più che sui progressi compiuti dalla Russia che il primo presidente affidava al proprio erede. Come se gli stesse consegnando un tesoro fragile: «Bereghite Rossiju, abbiatene cura», chiese Eltsin a Vladimir Putin il 31 dicembre 1999, prima di lasciare il Cremlino.
Vent’anni dopo, è possibile immaginare su chi Putin potrebbe riporre la stessa fiducia? L’unico scenario prevedibile è un Putin 5.0, uno Zar di quinta generazione che tenga il potere oltre la scadenza del mandato attuale, nel 2024: magari con un’altra corona, un titolo di “padre della nazione” che sovrasti quello di presidente; o con un Paese diverso da governare, se avrà un futuro il progetto di integrare Russia e Bielorussia. Almeno per ora non si vedono alternative all’altezza di Putin: a meno di una sorpresa simile a quella architettata dall’entourage di Eltsin 20 anni fa. A meno di non veder spuntare un nuovo sconosciuto Putin, l’erede perfetto.
Il giorno di Capodanno, Putin volò in Cecenia a incontrare i soldati impegnati nella guerra che lui stesso, da primo ministro, aveva scatenato l’estate precedente. Su quella soprattutto aveva costruito l’immagine di leader forte che avrebbe ripreso in mano tutto ciò che Eltsin aveva lasciato andare alla deriva in un decennio di violente trasformazioni culminato in una grande crisi economica. Ai russi, rassicurati, Putin piacque subito.
Lo conoscevano poco, e seguendolo nel breve messaggio andato in onda la notte di Capodanno videro l’uomo divenuto premier sei mesi prima affermare, senza l’ombra di un sorriso, di aver raccolto da Eltsin i poteri di capo dello Stato. Prima ancora di impegnarsi a proteggere libertà e diritti dei cittadini, Putin chiarì che neppure per un istante ci sarebbero stati vuoti di potere. E che qualunque violazione della legge sarebbe stata stroncata.
Il giorno prima, però, Putin aveva firmato un manifesto, “La Russia alla svolta del millennio”: le basi del programma che intendeva realizzare. Sul decennio di Eltsin, Putin è comprensivo: «La drammatica situazione economica e sociale del Paese è il prezzo che dobbiamo pagare per l’economia che abbiamo ereditato dall’Unione Sovietica>. L’attenzione eccessiva allo sviluppo di materie prime e difesa ai danni di beni di consumo e servizi, i freni all’imprenditorialità. Ma «la strada al mercato e alla democrazia è stata difficile per tutti gli Stati che l’hanno intrapresa negli anni 90».
Mentre pone l’accento sulla necessità di raddrizzare gli errori dando più forza allo Stato e dignità alla Russia, i punti di riferimento del manifesto sono la democrazia e i valori liberali che l’accompagnano, il mercato e l’integrazione nella comunità internazionale.
Nel campo economico, i primi passi di Putin – eletto presidente il 26 marzo successivo – furono fedeli alle intenzioni del manifesto. La drammatica svalutazione del 1998 e la ripresa dei prezzi del petrolio stavano ridando fiato all’economia. Lo Stato riprese a pagare stipendi e pensioni, primo modo per ridare dignità alle persone. «I russi – scrive Putin – vogliono stabilità, fiducia nel futuro e la possibilità di programmarlo. Non per un mese, ma per anni e decenni a venire. I russi vogliono lavorare in pace e sicurezza. E in un ordine basato sulla legge».
È facile, tornando ora a quelle parole, riconoscere quelle cruciali per Putin, e quelle perdute per strada. «La Russia ha bisogno di uno Stato forte. Non invoco il totalitarismo: solo i sistemi democratici sono duraturi. Un potere statale forte in Russia è uno Stato federativo democratico e basato sulla legge». E basato sull’accordo sociale: «Dove c’è un’ideologia benedetta e sostenuta dallo Stato, non c’è spazio per la libertà intellettuale e spirituale, il pluralismo ideologico e la libertà di stampa: per la libertà politica – scrive Putin -. Sono contro la ricostituzione di un’ideologia ufficiale di Stato. In una Russia democratica non dovrebbe esserci un consenso civile forzato. Il consenso sociale può solo essere volontario».
Il nuovo presidente parla di fede nella grandezza della Russia, definisce i concetti di patriottismo e statismo: patriottismo «è senso di orgoglio per il proprio Paese, per la sua storia e per quanto ha realizzato. La grandezza di un Paese si manifesta nella capacità di essere leader nella creazione di tecnologie avanzate, nell’assicurare un alto livello di benessere, nel proteggere la propria sicurezza e nel sostenere gli interessi nazionali nell’arena internazionale, più che nella forza militare».
La società moderna in Russia, secondo Putin, non identifica uno Stato forte ed efficiente con uno Stato totalitario: «Abbiamo imparato ad apprezzare i benefici della democrazia, dello Stato basato sulla legge, sulle libertà personali e politiche. Anche se la gente è allarmata dall’indebolimento del potere statale».
Questa strategia, scrive Putin, «deve essere realizzata in una situazione di stabilità politica». E oggi sembra questa la frase rimasta a guidare lo Stato che Putin ha costruito negli anni, e la rotta su cui presumibilmente intende continuare: l’unica agenda considerata legittima dalle autorità. Era davvero inconciliabile con una vera democrazia? Alla stabilità – politica, economica e sociale – è stato sacrificato tutto quanto affermato prima nel manifesto, le libertà politiche e il pluralismo; una crescita adeguata dell’economia e la libera iniziativa. Stabilità come garanzia di salvaguardia del sistema. Non della Russia.