Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2020
Patto di governo attuato al 14%
Per misurare nel modo più efficace la distanza fra volere e potere basta andare al punto 15 del patto Pd-M5S che a settembre ha dato vita al governo Conte-bis. Quello dedicato alla giustizia.
Oggi la battaglia fra gli alleati di governo aspetta solo la fine della pausa natalizia per riaccendersi con i progetti concorrenti su prescrizione e tempi dei processi, mentre l’idea ventilata dal premier Conte di tagliare un grado di giudizio nella giustizia tributaria ha acceso un polverone di polemiche e critiche dai tecnici. Solo quattro mesi fa, invece, i neoalleati giallo-rossi sventolavano una coesione assoluta sulla volontà di «rendere più efficiente il sistema della giustizia civile, penale e tributaria anche attraverso una drastica riduzione dei tempi», senza dimenticare di «riformare il metodo di elezione del Csm» e ovviamente puntando a «garantire l’indipendenza della magistratura dalla politica». Già, ma come? Sul punto, ogni partito della maggioranza sembra avere idee opposte.
Il tema tornerà a occupare i tavoli del governo il 7 gennaio (si veda articolo sotto), quando è previsto l’ennesimo vertice per rilanciare l’azione di un esecutivo affaticato dalle polemiche interne che hanno accompagnato la sessione di bilancio. Sessione di bilancio che, anche grazie alla regia costante del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, riassume di fatto quasi tutte le realizzazioni effettive del programma. Che dopo quattro mesi di vita del governo può colorare di verde solo quattro caselle su 29: le misure di finanza pubblica, appunto, con lo stop agli aumenti Iva, gli aiuti a famiglia e disabili e le politiche abitative con la stabilizzazione della cedolare secca per gli affitti sociali; la lotta all’evasione, con l’inasprimento delle pene per i reati tributari più gravi e con qualche incertezza sulla spinta ai pagamenti tracciabili, tradotta nel rinvio a luglio dell’abbassamento della soglia del contante e l’addio alle sanzioni per i commercianti che non utilizzano il Pos; l’industria, con i nuovi incentivi (non più iper e superammortamento ma credito d’imposta) ripensati anche per favorire piccole imprese e riconversione produttiva in chiave ambientale, e il cosiddetto «Green New Deal» con le risorse per gli investimenti pubblici e le regole per favorire quelli privati. I piani, ovviamente, ora devono essere resi operativi. Ma le norme sono state approvate.
Lo stesso non si può dire per gli altri 25 punti del programma, che sono giallo-rossi nel senso che gli interventi sono stati appena abbozzati (semaforo giallo) oppure sono per ora usciti dai radar dell’azione di governo (rosso).
In molti casi, a frenare il completamento dei progetti è la politica delle «bandierine» che anima la competizione interna alla maggioranza. Nel punto 10 dedicato alle istituzioni, per esempio, i Cinque Stelle sono riusciti a portare a casa l’approvazione definitiva del taglio dei parlamentari, concludendo l’opera avviata ai tempi dell’alleanza con la Lega. Ma del «percorso di riforma quanto più possibile condiviso del sistema elettorale» per ora non c’è traccia. O, meglio, ce ne sono troppe, perché anche qui ogni partito sta spingendo un progetto diverso, in un mix di convenienze ipotetiche e convinzioni dichiarate difficile da sbrogliare. Non solo: quando si parla di regole elettorali la «condivisione» deve guardare anche all’opposizione, dominata dalla Lega che sta però aspettando il via libera della Cassazione al “suo” referendum sul maggioritario mentre la maggioranza lavora a varie forme di proporzionale. In un quadro come questo, le chance di realizzare «una revisione costituzionale volta a introdurre istituti che assicurino più equilibri al sistema e contribuiscano a riavvicinare i cittadini alle istituzioni» si riducono quasi a zero.
Una situazione speculare si incontra al punto 4, relativo al lavoro. Qui la bandiera che sventola è quella del Pd, con l’avvio del taglio al cuneo fiscale su cui il ministero dell’Economia è pronto a passare ai fatti (si veda pagina 2), mentre restano ammainate quella M5S sul salario minimo. Come accade, va detto, anche per la legge sulla rappresentanza sindacale, per la promessa parità di genere sugli stipendi oltre che per la conciliazione vita-lavoro.
In molti casi invece le promesse di settembre sono per ora rimaste tali, senza nemmeno l’avvio di un lavoro vero e proprio per tradurle in misure. È il caso per esempio della legge sul conflitto d’interessi, tema delicato anche in casa Cinque Stelle come mostrato nelle ultime settimane dalla vicenda delle norme sulla digitalizzazione della Pa e sull’identità digitale per tutti, cadute in extremis dal Milleproroghe perché considerate dalla stessa maggioranza a rischio di favorire il business della Casaleggio & Associati.
La conseguenza è che anche il punto 23, quello che prospetta lo sviluppo della cittadinanza digitale, resta al momento colorato di rosso.
È lo stesso colore della riforma fiscale, del resto, chiamata a «semplificare la disciplina», «rimodulare le aliquote in linea con il principio della progressività» (cioè senza ipotesi di Flat Tax) e «alleggerire la pressione fiscale». Anche lei dovrà essere al centro dell’agenda di gennaio, quando secondo le dichiarazioni del premier Conte e i progetti del titolare dell’Economia Gualtieri dovrebbero prendere forma i cantieri del nuovo fisco. Nuovo fisco che, sempre stando al punto 17, dovrebbe anche conoscere una riduzione delle tax expenditures: che però avrebbe bisogno di un cambio di rotta drastico anche rispetto all’ultima legge di bilancio, dove agli annunci di tagli per 10 miliardi sono seguiti in realtà nuovi sconti per 5 miliardi il primo anno e 7 miliardi a regime per gli anni successivi. Perché quando si scrive un programma non è difficile ipotizzare ambiziose ristrutturazioni del sistema; ma quando si passa ad articoli e commi è quasi impossibile resistere alle pressioni delle svariate categorie di interessati a questo o a quello sconto.