Avvenire, 2 gennaio 2020
Il tempo al display ci cambia il cervello
Da qualche tempo si era intuito che l’uso dei dispositivi digitali dotati di schermo poteva avere effetti cospicui sul cervello, specie nel caso di bambini in età prescolare. Ora si ha un’autorevole conferma del fenomeno grazie allo studio condotto da un gruppo di ricercatori guidato dal dottor John S. Hutton, direttore del Reading and Literacy Discovery Center dell’Ospedale Pediatrico di Cincinnati, nell’Ohio. I risultati dello studio, pubblicati sul “Journal of the American Medical Association” ( Jama) poco più di un mese fa, dimostrano che vi è una correlazione tra l’uso degli schermi e il mancato potenziamento di certe aree del cervello, specie quelle preposte alla comprensione e alla produzione del linguaggio, confermando la validità delle raccomandazioni tese a limitare il «tempo schermo», cioè il tempo passato davanti a uno schermo. Già nell’aprile di quest’anno l’Organizzazione mondiale della sanità aveva preso posizione rispetto al tempo schermo e aveva emanato un pacchetto di linee guida. Le linee guida sono molto minuziose, al limite della pedanteria, come dimostra questo esempio che interessa i bambini sotto l’anno di età: essi devono svolgere attività fisica più volte durante l’arco della giornata, in particolare giocando sul pavimento per almeno 30 minuti distribuiti in più intervalli temporali, e non devono restare più di un’ora di seguito confinati sul seggiolone o sul passeggino. L’Oms, inoltre, sconsiglia l’uso degli schermi per questa fascia d’età e raccomanda invece l’ascolto di storie lette da un adulto, in particolare da un genitore, pratica che rafforza il legame affettivo e amplia la comprensione e la padronanza del vocabolario. È impressionante il dato, fornito dall’Oms, che la scarsa attività fisica sia responsabile di oltre 5 milioni di morti l’anno ed è preoccupante che la sedentarietà sia più diffusa tra gli adolescenti (80%) che tra gli adulti (23%), segno che l’impigrimento tende a diffondersi tra i più giovani.
Gli umani sono creature della narrazione e ciascuno di noi dalla nascita alla morte non fa altro che narrare, narrarsi e farsi narrare delle storie, quindi è grandissima l’importanza dei racconti per la formazione identitaria dell’individuo, per la ricerca del senso del mondo e di noi nel mondo e per il rafforzamento del legame affettivo tra il bambino e il lettore di storie, che quasi sempre è un genitore.
Tornando alle raccomandazioni dell’Oms, fino ai primi 3 mesi i piccoli debbono dormire dalle 14 alle 17 ore (che miraggio per noi vecchi, tormentati dall’insonnia!) e dalle 12 alle 16 ore devono dormire i bambini tra i 4 e gli 11 mesi... E così via, in un susseguirsi di prescrizioni molto categoriche e rigide, la cui precisione è stata contestata dai molti che sostengono che al crescere dell’età dei soggetti la meticolosità dovrebbe essere sostituita da una sorta di «libertà vigilata» che aiuti genitori e bambini ad accrescere il senso di comunanza affettiva, senza privare i piccoli delle opportunità offerte dagli schermi dei videogiochi, della Tv, dei tablet e via elencando.
Negli Stati Uniti è stata fondata trent’anni fa la “Reach Out and Read”, un’organizzazione che si propone di incoraggiare la lettura ad alta voce dei genitori ai loro bambini, limitando il tempo schermo e facendo in modo che nelle abitazioni vi siano zone prive di schermi, in particolare la stanza da letto dei piccoli. Il cervello dei bimbi è condizionato dall’ambiente in cui crescono e dallo stile di vita che conducono, di cui sono in gran parte responsabili i genitori, tuttavia secondo Hutton non si devono demonizzare gli schermi né tanto meno colpevolizzare i genitori, ma si deve trasmettere loro questo messaggio: nei primi anni i genitori sono importantissimi, devono essere presenti, interagire coi bambini giocando, parlando, cantando, facendo domande e rispondendo e, soprattutto, leggendo ad alta voce. È convinzione ormai diffusa tra i pediatri che lo sviluppo ottimale del cervello infantile
richieda una costante interazione con gli esseri umani, in particolare con i genitori.
È probabile che, sotto il profilo diacronico, il cervello si sia evoluto, cablato e sviluppato grazie a queste interazioni, quindi si deve fare in modo che i piccoli le possano esercitare, perché ogni volta che si compie un’azione, le connessioni neuronali corrispondenti ne sono rinforzate. Hutton sottolinea che lo studio condotto dal suo gruppo è il primo che documenti una correlazione tra il tempo schermo da una parte e le strutture cerebrali e le loro funzionalità dall’altra. Peraltro si deve sottolineare che correlazione non significa relazione di causaeffetto, che è un legame ben più forte, di carattere deterministico. Inoltre, se esiste una relazione di causa-effetto, può darsi che essa abbia a che fare non tanto con gli schermi quanto con ciò di cui il tempo schermo prende il posto nella vita dei bambini, ma questo resta un punto da approfondire.
Guidare un’automobile non è in sé una pratica nociva, ma farla guidare da un piccolo di quattro o cinque anni non è una buona idea. Così i tablet, in particolare, sono così attraenti ed esclusivi che non dovrebbero finire nelle mani dei bambini in età prescolare. Ciò, ribadisce Hutton, non comporta che gli schermi siano intrinsecamente deleteri, ma poiché un cervello in pieno sviluppo è strutturato dalle esperienze, è bene che i genitori scelgano le esperienze più utili e costruttive per i loro figli e per la loro vita futura. E qui si torna all’idea che la straordinaria plasticità del cervello infantile può essere sfruttata nel modo più vantaggioso sotto il profilo strutturale e funzionale se il bambino si esercita nella lettura, nell’ascolto e nell’invenzione di storie, nei giochi all’aperto, mentre se il tempo schermo prende il posto delle interazioni con gli altri esseri umani, in particolare con i genitori, è possibile che lo stupefacente potenziale di plasticità cerebrale tipico dell’età infantile non dia i frutti che potrebbe fornire.
In particolare, poiché una delle capacità più straordinarie degli umani è la padronanza del linguaggio parlato, è importante che le esperienze precoci rafforzino la aree cerebrali che presiedono a questa funzione: l’area di Wernicke, addetta alla comprensione del linguaggio, e l’area di Broca, addetta alla produzione del linguaggio. Queste due aree linguistiche sono collegate tra loro da un fascio di neuroni, il fascicolo arcuato, che garantisce uno scambio di messaggi tra Wernicke e Broca. È superfluo sottolineare l’importanza sociale e culturale del linguaggio. Senofonte attribuiva a Socrate queste parole: «Non hai mai pensato che tutte le cose che per legge abbiamo imparato essere ottime, e per le quali sappiamo vivere, tutte le abbiamo imparate per mezzo della favella?». Ecco che l’esercizio della narrazione attiva e passiva rafforza le aree del linguaggio e consente di sviluppare le interazioni sociali e il dialogo interno, attribuendo un senso al mondo e a noi nel mondo.
Chissà se la loro assidua attività di ricerca porterà prima o poi i neuroscienziati a scoprire qualche area cerebrale che si comporti nei confronti degli schermi come le aree di Wernicke e di Broca si comportano nei confronti del linguaggio parlato... Si aprirebbero orizzonti scientifici e filosofici di vastità inaudita.