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 2020  gennaio 02 Giovedì calendario

Rita Levi Montalcini sognava di diventare scrittrice

«Ho sempre dovuto reprimere un sogno nel corso della mia vita: diventare scrittrice». Così, nel 1990, Rita Levi-Montalcini raccontò a Vanity Fair, all’apice della sua fama dopo il premio Nobel assegnatogli pochi anni prima, e ormai primadonna della scienza, anzi «principessa» come la definiva tra gli altri Primo Levi. È forse una ovvietà supporre un’energia letteraria repressa che si sublima in quella forza singolare che ha portato la scienziata, pur nella condizione precaria di ebrea al tempo delle leggi razziali e della guerra, ad allestire un laboratorio nella sua casa di Torino, e a cominciare qui nel 1941, insieme con il suo maestro Giuseppe Levi (il padre di Natalia Ginzburg), gli esperimenti cruciali che la porteranno nel 1986 agli onori di Stoccolma con la sua scoperta del fattore della crescita neurale (NGF nell’abbrevizione inglese).
Leggendo gli scritti di Rita Levi-Montalcini, e in particolare l’avvincente autobiografia Elogio dell’imperfezione (Garzanti, 1987), si arriva però a una conclusione diversa: che cioè il sogno di divenire scrittrice, nato forse sull’onda delle letture giovanili (Selma Lagerlöf, Emily Brontë, Virginia Woolf), represso inizialmente, sia in qualche modo riemerso poi. In alcuni casi, soltanto per creare piacevoli divertissement letterari. Come in quella parte della sua autobiografia dove narra una fase importante della «saga dell’NGF»: quella che la porta dal Midwest a Rio de Janeiro per eseguire ricerche su cellule nervose in cultura, insieme con Hertha Meyer, ebrea tedesca anche lei allieva di Levi a Torino.
Singolare il tragitto da Saint Louis nel Missouri a Rio, perché la scienziata – legatissima com’è alla famiglia – decide entretemps di passare in l’Italia per rivedere i suoi cari. Singolare tra l’altro perché in questo modo aumenta anche i disagi di due animaletti che, come ci dice, porta con sé per gli esperimenti in Brasile (due topolini portatori di un particolare tipo di tumore). Così scrive Rita: «Arrivai all’aeroporto di Rio de Janeiro in un pomeriggio temporalesco, il 14 settembre 1952. Non ero sola: due topolini bianchi mi spiavano attraverso i buchi bianchi del coperchio di una scatola di cartone e staccavano a piccoli morsi i resti di una mela che era servita a nutrirli e a dissetarli nel lungo viaggio da Roma a Rio». Nella traduzione inglese dell’opera, pubblicata nel 1989, l’episodio si arricchisce del particolare, ancora più glamour per il lettore, secondo cui la scatola di cartone era stata da Rita sistemata nella tasca del suo soprabito.
Ebbene, quasi certamente i fatti si svolsero diversamente. Nella lettera che scrive lo stesso giorno al suo mentore di Saint Louis, Viktor Hamburger (anch’egli ebreo, e anch’egli fuggito dal suo Paese a seguito delle leggi razziali), Rita non parla in effetti di topolini nella scatola di cartone, ma scrive, subito all’inizio: «Hertha told me that the mice arrived in a fairly good condition few days ago – Am glad for that» (i topi insomma erano giunti alcuni giorni prima, molto verosimilmente attraverso una spedizione aerea convenzionale). 
Nella prospettiva della Levi Montalcini scrittrice c’è nell’autobiografia un altro capitolo interessante, quello in cui la scienziata racconta l’ultimo incontro con Giuseppe Levi, avvenuto «in una sera di fine gennaio 1965, all’ospedale San Giovanni di Torino». Levi, che aveva 93 anni, era molto sofferente, perché, ai disagi derivati dall’amputazione della gamba sinistra avvenuta diversi anni prima, si aggiungeva il dolore di una cancrena iniziale nell’altra gamba, e quello di un carcinoma gastrico ormai in fase terminale. L’episodio, narrato in maniera coinvolgente, è dominato dalla semioscurità (topos letterario di sicura efficacia). «Entrata nella stanza non ancora illuminata dalla luce della lampadina, intravidi nella penombra di quel tramonto invernale il profilo del suo grande corpo contenuto a stento nel lettino di ferro. Era solo». 
Maestro e allieva ripercorrono insieme «gioie e amarezze» della loro intensa vita, le ricerche, i momenti difficili delle persecuzioni razziali, la prima emigrazione, verso il Belgio (a Bruxelles lei, a Liegi lui), il ritorno in circostanze difficili, gli esperimenti nel laboratorio allestito dalla allora giovane scienziata nella sua casa di corso Umberto. «Nessuno, con mio sollievo», scrive Rita, «venne a turbare quel nostro ultimo colloquio che si protrasse per tre ore nel buio». Questo almeno è quanto leggiamo nell’Elogio dell’imperfezione. Penombra e solitudine dominano anche un racconto inedito dell’evento, datato 9 novembre 1984, inviato da Rita a Rodolfo Amprino, amico e collega fin dagli anni della giovinezza. 
La realtà fu però diversa, almeno a stare alla narrazione che la scienziata-scrittrice fa, sempre ad Amprino, in una lettera scritta all’indomani dell’incontro (il 21 gennaio 1965). Arrivando nella camera del San Giovanni, Rita trova Miranda (Segre), la moglie di Alberto, il terzo dei figli di Levi, medico, il quale passa lui stesso brevemente a visitare il padre. Entrano nella stanza più volte le infermiere, incapaci comunque di alleviare le sofferenze del vecchio scienziato. Più tardi arriva l’allievo Guido Filogamo. Insomma non c’è nulla che faccia pensare alla «mitica» solitudine del racconto pubblicato, nulla neppure che alluda alla penombra.
Con il suo Elogio dell’imperfezione, Rita Levi Montalcini dà alle stampe in effetti un testo letterario, in cui non bisogna troppo cercare la verità storica; un po’ come accade per il Lessico famigliare scritto da Natalia Ginzburg. Libri importanti entrambi, che elevano Torino, la sua scienza, la sua cultura, il suo ebraismo, a protagonisti di un importante capitolo della storia del Novecento.