La Stampa, 2 gennaio 2020
Il problema delle concessioni autostradali
Il crollo di parte del soffitto della galleria Berté sulla A26 riapre la questione delle concessioni autostradali. È un dibattito che si riapre ciclicamente. Fra i partiti, il Movimento Cinque Stelle è quello che ha la posizione più netta, lasciando intendere che tutto si possa risolvere con un ritorno alla proprietà pubblica. È una posizione ragionevole?
La Corte dei Conti ha recentemente pubblicato una relazione sulle concessioni autostradali. Ne esce un quadro devastante. I problemi centrali sono la scarsa trasparenza e gli ostacoli alla concorrenza. Le concessioni sono state a lungo segretate. La quasi totalità delle tratte «sono state affidate o prorogate senza gare in assenza di confronto concorrenziale», in barba ai principi europei e a dispetto delle ripetute proteste delle autorità indipendenti. Fra queste ultime, solo di recente all’Autorità di regolazione dei trasporti (Art) sono state attribuite competenze sul comparto. L’Art lamenta che la sua capacità di predisporre modelli per la regolazione delle nuove concessioni è «inficiata dalla mancanza di dati gestionali detenuti dal Ministero delle infrastrutture».
Dei 7400 km di rete autostradale, 6000 sono dati in concessione (il resto è nelle mani dell’Anas). «La rete a pedaggio è gestita da 22 società con 25 rapporti concessori», di cui quattordici a maggioranza privata. Queste aziende (cui se ne sommano altre, partecipate da Anas e Regioni per i tratti di competenza di queste ultime) hanno contratti molto eterogenei, che rendono più difficile paragonare la performance delle diverse aziende, e sistemi tariffari che ognuno fa storia a sé.
Un buon regime concessorio dovrebbe permettere al concedente di controllare l’adempimento preciso degli impegni assunti da parte del concessionario. Quest’ultimo dovrebbe poter realizzare gli investimenti promessi senza infiniti intoppi burocratici, in un contesto di responsabilità chiare.
Al contrario, la Corte dei Conti segnala come la collaborazione fra Ministero delle Infrastrutture e Autorità non sia mai decollata, col primo troppo geloso delle sue competenze per cederle alla seconda.
Fare le regole non è facile, ancor meno lo è farle rispettare.
Nel nostro Paese esiste una tendenza di lungo periodo, che non riguarda solo le autostrade, a non ricorrere a procedure di gara. Le gare non sono un meccanismo perfetto ma sono indispensabili, in un settore come questo, per stimolare un po’ di concorrenza: se non si comprende quali sono le opzioni disponibili per il cittadino, se non si hanno strumenti per capire cosa è stato fatto e cosa no, come può il decisore fare una scelta consapevole?
Questi sono i principi che informano le regole europee. La revoca ci spingerebbe nella direzione opposta non solo perché è, almeno per ora, una decisione fondata più su esigenze di consenso che su basi giuridiche. Ma soprattutto perché conduce alla nazionalizzazione di tutta la rete.
Il vantaggio della nazionalizzazione dovrebbe essere accorciare la catena di comando: lo Stato propone e lo Stato dispone. Ma siamo certi che, facendo tutto, farebbe tutto bene?
Si fa presto a dire nazionalizzazione. Per gestire l’infrastruttura in prima persona lo Stato avrebbe le competenze e le professionalità necessarie, o assumerebbe in blocco dirigenti e dipendenti di Autostrade (venir pagati dal contribuente anziché dai Benetton equivale alla remissione dei peccati?). In ogni caso, anche lo Stato dovrebbe sottoporre il proprio operato a delle norme, dirci quali regole seguirà. Non ha saputo scriverle e farle rispettare ad altri, sarebbe più esigente con se stesso?