Corriere della Sera, 2 gennaio 2020
Biografia di Enrico Brignano raccontata da lui stesso
La sua, una vita da migrante. Nato a Dragona, periferia romana, ha iniziato la carriera sul trenino che lo portava a scuola, dal suo quartiere alla zona della Piramide Cestia, andata e ritorno. «Frequentavo un istituto professionale, perché sognavo di diventare un tecnico di industrie meccaniche – racconta Enrico Brignano —. In borgata si fanno sogni piccoli, il cassetto per contenerli è stretto e ce ne puoi infilare pochi. La mia massima aspettativa non era quella di fare il pilota di rally o il divo del pallone, aspiravo al posto fisso e a mettere la testa a posto. Non immaginavo lontanamente il mondo dello spettacolo, fare l’attore, recitare non erano i miei traguardi, però il gusto di far ridere la gente già ce l’avevo e così, nel tragitto da casa a scuola, quel trenino blu di pendolari è diventato il mio primo palcoscenico».
Qual era il repertorio?
«Avevo imparato a fare le imitazioni di personaggi famosi e a raccontare barzellette per i miei compagni quando giocavamo a calcio nel campetto della parrocchia. Ero diventato bravino a imitare il balbuziente, oppure a rifare i dialetti. Spinto dalla voglia di esercitarmi, mi esibivo in quel percorso. Non all’andata, dato che alle 7 del mattino era difficile far ridere le persone, tutte ingrugnate. Al ritorno davo il meglio: i passeggeri erano più disponibili, magari stanchi e affamati, ma fuori dal finestrino non c’era un bel panorama da guardare. Per acciuffarne l’attenzione mi scatenavo: dovevo portare a casa almeno una risata e, prima di scendere, doveva scattare l’applauso. D’altro canto, il mio era uno spettacolino a gratis».
Riusciva nell’intento?
«C’erano quelli che non volevano ridere, mi accanivo proprio su di loro. Una volta, un signore distinto, di sicuro non era un operaio come la maggior parte dei passeggeri, si teneva in disparte, leggeva un libro. Era un tipo difficile e, se di solito mi bastavano un paio di fermate per far partire la risata, lui nun voleva proprio ride’. Arrivato a fine corsa, mi giocai il jolly: il trenino si ferma e, mentre scendevo, prendo una musata sulla porta a soffietto che, essendo loffia, non si era aperta del tutto. In quella frazione di secondo mi sono inventato mille facce strane e finalmente anche quel tizio sbotta a ridere. Tutti gli altri applaudivano esclamando “ Bravo! Ma ‘ndo abbiti?”. Tornai a casa dolorante per la botta che avevo preso sul serio, ma vincitore».
Quel signore l’ha incontrato ancora?
«No, tuttavia è stato importante quell’incontro, perché grazie alla sua ostilità ho intrapreso il mio modus operandi in scena: divertire tutti gli spettatori è la mia filosofia. All’epoca non avevo mestiere, ero un ragazzotto genuino. Ora il pubblico che assiste ai miei spettacoli ha pagato il biglietto, mi ha scelto e la mia diventa una missione».
Addirittura!
«Certo. Quando dal palco intravedo qualcuno che non partecipa, scendo in platea e gli vado a chiedere: che è successo? Perché non ride? La vicinanza provoca un ammorbidimento dello spettatore musone, si rilassa e si concede al sorriso».
Da chi ha ereditato la vis comica?
«Dicono da mio nonno paterno, non l’ho mai conosciuto, pare fosse un grande intrattenitore. Era siciliano ma, con moglie e figli, viveva a Tunisi: erano gli italiani emigranti di quel tempo, che approdavano alle coste tunisine a bordo di barchette di legno, in siciliano le vutticedde, le botticelle, come piccole botti. Poi la mia famiglia è tornata in Italia: mio padre e mia madre aprirono una frutteria a Dragona. Ho avuto la fortuna di vivere a Roma, però lo spirito da migrante l’ho mantenuto: migro con le tournée da scavalcamontagne».
Un migrante di lusso che ha imparato il mestiere da un maestro come Gigi Proietti.
«Avevo finito di frequentare l’istituto tecnico e decisi di cambiare strada. Al vicolo del Moro, c’era il laboratorio del grande Gigi. Mi iscrissi per il provino: portai un brano dall’Enrico IV di Pirandello, ero convinto di saperlo fare bene, e invece mi dissero sbrigativi: le faremo sapere, come a dire, te ne devi anna’».
Deluso?
«Ovvio, ma non scoraggiato. In quel periodo facevo il militare a Chieti e il mio caporale marchigiano, che parlava malissimo l’italiano, mi propose di iscriverci insieme a una scuola di teatro a Pescara: insegnavano dizione, mimo, movimento del corpo... Accettai. Il corso durò un anno e, quando tornai a casa, tentai provini in altre accademie. Nessuno mi prendeva, sembrava che i miei sogni perdessero quota e invece la caparbietà si è fortificata. Finalmente arriva il bando di un nuovo laboratorio con Proietti e c’ho riprovato».
Di nuovo Pirandello?
«No, per carità! Ho virato sul Conte Agenore, tratto da Operetta di Gombrowicz: vestito in frac e col cilindro in testa, cantai, ballai, recitai...».
Ma il mattatore era presente?
«Sì, c’era Gigi: figura mitologica, mezzo uomo e mezza capoccia, con voce profonda. Lo intravedevo in fondo alla sala e, devo dire la verità, sulle prime mi ricordava un po’ il signore del treno, non rideva tanto. Mi stavo scoraggiando, così ho iniziato una raffica di annunci di treni, quelli che si sentono nelle stazioni dagli altoparlanti, in tutti i dialetti italiani... Alla fine scorgo il sorriso di Gigi e poi applausi da tutti. La fortuna aiuta gli audaci e stavolta ho centrato l’obiettivo».
Proietti mattatore e anche maestro...
«Era bravo a insegnare. Durante le lezioni, quando l’allievo era duro de comprendonio e Gigi non riusciva a spiegargli con le parole ciò che voleva da lui, saliva sul palco e glielo spiegava facendolo: come un grande chef ti mostrava tutti gli ingredienti necessari al piatto da creare per il pubblico. Ho imparato anche facendo per una decina d’anni la sua spalla. Il mio primo impegno, però, fu da suggeritore e attrezzista, grande scuola».
Nessun incidente dietro le quinte?
«Come no? Me ricordo quella volta che interpretava l’Edmund Kean. In una scena lui doveva attaccarsi a garganella a una bottiglia, fingendo che fosse di whisky: la svuotava, si asciugava la bocca e prendeva l’applauso. In realtà dentro c’era il tè e io non avevo capito perché non dovevo riempirla completamente. Durante una replica, riempio la bottiglia fino all’orlo. Gigi si attacca e beve, beve... non finiva più il liquido, era diventato paonazzo, non riprendeva fiato! Ero disperato, lo guardavo da dietro le quinte e non sapevo come soccorrerlo. Finalmente, riesce a finire il tè e a riprendere fiato, scatta l’applauso, lui si volta verso di me, mi brucia con le cornee degli occhi come a dire: te possino ammazza’... poi famo i conti».
E li avete fatti?
«No, il maestro era un pezzo di pane, mai severo. Rimproveri pochi e poi, diciamo la verità, qualche volta si sbagliava pure lui».
Consigli preziosi ricevuti da Proietti?
«Quando ho cominciato a fargli da spalla, pretendeva la massima attenzione e nulla doveva essere lasciato all’improvvisazione. Un consiglio importante me lo ha dato quando venni scritturato da Canale 5 per il programma La sai l’ultima?: facevo il barzellettiere e mi dava tanta popolarità. Gigi mi fece i complimenti, poi mi prese a quattr’occhi, dicendo con tono grave: “Me raccomanno, va bene la tv ma non ti dimenticare mai il teatro”. Sembrava quasi un rimprovero, invece era una santa raccomandazione che ho sempre rispettato».
E ha conquistato anche il ruolo di Rugantino al Sistina...
«Ho sempre sognato di interpretarlo, un personaggio straordinario, cavallo di battaglia di tanti attori. Sono stato il quinto a impersonarlo in ordine cronologico. Mi sono preparato ripercorrendone la storia sui ritagli di giornali e con i ricordi di Gigi Magni... L’ho vissuto come una consacrazione».
Una lunga carriera. Errori? Rimpianti?
«Nelle sliding doors della vita, mi è capitato qualche errore e rimpianto. Tuttavia certi miei rifiuti si sono rivelati migliori di quanto pensassi. Il vero rimpianto e che avrei voluto dire più volte a mio padre ti voglio bene, non ce lo siamo mai detto. Per questo nel 2011, quando è mancato, gli ho dedicato uno spettacolo intero, intitolato Tutto suo padre».
La vita da migrante continua...
«E ancora di più! Voglio fare spettacoli per gli italiani all’estero, per mantenere alto il morale dei nostri connazionali. Perché mi creda: quelli che fanno lavori umili, in posti tanto lontani da casa, hanno davvero bisogno de fasse ogni tanto ‘na risata».