la Repubblica, 2 gennaio 2020
I soldati neri morti per l’Italia
SOMMOCOLONIA (LUCCA) Con appena 34 residenti, il paese a 710 metri su un promontorio che domina la valle del Serchio, Sommacolonia può ben definirsi “paese fantasma”. 52 case in pietra intorno a una torre medievale diroccata, punto di osservazione che spazia per 180 gradi, tra boschi di castagni. In basso, la storica cittadina di Barga. Qui, negli ultimi giorni di dicembre del 1944 passò la Storia, con l’ultimo disperato attacco di due divisioni tedesche sulla linea Gotica – Operazione Wintergewitter – respinto con un certo affanno dalle truppe alleate; se nei libri di storia militare della Seconda guerra mondiale, la battaglia di Sommocolonia è confinata alle note a fondo pagina, nonostante il fuoco, le bombe, i morti e le conseguenze dello scontro siano stati pesantissimi, è per un certo imbarazzo che da sempre ha circondato tutta la vicenda, ricca di «cose di cui è meglio non parlare».
Per questo fa piacere dare notizia del 26 dicembre del 2019 a Sommocolonia, 75 anni dopo la battaglia: una giornata particolare, con la banda a suonareBella Ciao, il prete a benedire, gli alpini e l’Anpi ultimi testimoni, tutti intorno a una signora americana dai capelli bianchi, che ha portato nel paese un libro di storia davvero struggente. Solace Wales ha ottant’anni, una vita passata ad insegnare l’arte ai bambini nella Bay Area della California, ha vissuto per quasi quarant’anni con il marito Bill, pittore di paesaggi e nature morte, per parte dell’anno proprio a Sommocolonia e ha sentito raccontare le storie della guerra da chi allora era ancora in vita.
Ora è seduta in una saletta dove la sindaca di Barga, Caterina Campana, ha organizzato un incontro e un rinfresco (prosecco, aranciata e crostini toscani), con il mano il libro appena uscito negli Stati Uniti Braided In Fire: Black GIs and Tuscan Villagers on the Gothic Line 1944, che cominciò proprio in queste case, nel 1987, quando Solace ebbe l’idea di registrare i racconti di Annetta Marchetti, allora novantenne: la linea gotica che passava proprio di lì, il chilometro appena che divideva americani e tedeschi, per cui le donne lavavano la biancheria al lavatoio sia per gli uni che per gli altri, i bambini nascosti nei “fondi” che sapevano distinguere il suono delle suole degli stivali (di gomma, americani; chiodati, tedeschi), la povertà assoluta per cui si mangiava solo castagnaccio, i rifugi dove si dormiva sulle foglie su cui però erano stati messi i lenzuoli di canapa ricamati delle doti, i Nardini e i Biondi che avevano i figli partigiani e, naturalmente, i soldati “negri” della 92esima divisione di fanteria “Buffalo”, passati per la Toscana tra la leggenda, il mito e l’oblio.
Istituita nel 1942, sciolta nell’aprile del 1945, impiegata nelle missioni più rischiose della guerra italiana, la Buffalo – incredibile da credersi per un paese democratico che ci ha liberato dal nazifascismo – era completamente segregata, ovvero composta da soldati afroamericani specie degli Stati del sud, in pratica i pronipoti degli schiavi, costantemente umiliati e screditati, inviati nelle missioni più difficili e comandati da ufficiali bianchi che non facevano mistero di disprezzarli. Sentite il generale Edward Almond, eroe di guerra, che li comandava in Toscana: «Nessun bianco vuole essere accusato di fuggire dal fronte, i Negri invece se ne fregano… Li conosciamo, veniamo tutti dal Sud. E non vogliamo metterci a mensa con loro». A Sommocolonia furono mandati in 75, membri del 366esimo fanteria, un battaglione raffazzonato durante le progressive avanzate dalla Sicilia verso nord, una specie di “battaglione di scarto”. Nelle quattro ore di battaglia morirono in 45, altroché vigliacchi. Ma l’esercito americano non spese mai una parola per loro.
E dunque toccò a questa mite signora americana, vissuta decenni in mezzo alla purezza di quei luoghi, abituata alla scabra rettitudine morale dei suoi abitanti, andare a rintracciare cosa era stato di quei morti e di quei sopravvissuti. Li ha trovati, ha dato loro un nome, una storia e dettagli. Radio Londra trasmetteva di lasciare i frutti nei campi, e i contadini lo facevano. I Buffalo soldiers avevano buone razioni di cibo, ma li dividevano con i contadini, anche se era vietato e nessuno di loro venne mai accusato di stupri o violenze.
In mezzo a tutti, giganteggia la storia del tenente John Fox, 29 anni, bravo ragazzo dell’Ohio, tenente del 336esimo, “osservatore al tiro”, sistemato quasi in cima alla torre medievale di Sommocolonia, da cui vede arrivare, ad ondate, i soldati tedeschi. È l’alba, da giorni c’erano segni di movimenti di truppe tedesche (ed austriache, riconoscibili da un cappello con una stella alpina), ma la segnalazione arrivata a quel gentiluomo del generale Almond, era parsa una fregnaccia di negri e partigiani. Fox è l’unico tramite con l’artiglieria stazionata a Barga, comunica via radio le coordinate dei lanci dei mortai. Le truppe tedesche ormai stanno accerchiando la torre, sono sotto di lui. «Correggi l’alto», comunica. «Sei pazzo! Se scendo, arriva giusto addosso a te». «Fire it!», novello Pietro Micca, Sansone, Protesilao. Quando, quattro giorni dopo i Gurkha dell’Ottavo Fanteria Indiano, riconquisteranno Sommocolonia, troveranno pezzi del corpo di John Fox e dei suoi uomini in mezzo a una quantità di cadaveri tedeschi. Che ci facevano i Gurka, a Sommocolonia, me lo racconta Frank Viviano, l’inviato di guerra del quotidiano San Francisco Chronicle che proprio a Barga venne ad abitare vent’anni fa. Oggi sta scrivendo un saggio su quanto fu davvero “mondiale” l’avanzata del 1944. «I Gurka nepalesi, i brasiliani, i famosi marocchini in Ciociaria, gli americani giapponesi che liberarono la Versilia, e che diedero il più alto tributo di morti. Tutto il mondo era qui, 75 anni fa, in favore della piccola Italia…» La scrittrice Solace Wales può essere orgogliosa del suo lavoro. La sua ricerca ha fatto conoscere la fierezza e l’umanità dei quei soldati segregati, che tutto fecero tranne che scappare. Nel 1997, soprattutto grazie a lei, John Fox fu il primo soldato afroamericano a ricevere (alla memoria) la Presidential Medal of Honor, che venne consegnata alla vedova dal presidente Bill Clinton, alla Casa Bianca, che nell’occasione ricordò il brutti tempi del razzismo nell’esercito americano «Con la signora Fox eravamo diventate amiche – mi dice Solace Wales – e quindi mi invitò alla Casa Bianca. Fu una serata indimenticabile, Bill Clinton fu ammirevole, e molto caldo». «Sai», mi dice scendendo, cauta, dai gradini delle stradine in pietra dell’antica città fantasma, «mi sono portata le scarpe che avevo quella sera a Washington, le ho qui in borsa; ma poi mi sono resa conto che metterle è un po’ esagerato. E anche scomodo».