Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 02 Giovedì calendario

Storie di fughe carambolesche

Anche allora era inverno, 23 gennaio 1963, e anche allora c’era di mezzo il Libano, dove operava Kim Philby, agente doppiogiochista e inglese comunista vendutosi ai sovietici: quel giorno Philby fuggì sulla nave sovietica “Dolmatova”, ancorata a Beirut, che salpò di corsa urtando la banchina. Riapparve una settimana più tardi a Mosca. Philby era uno dei cinque “Cambridge Five”, giovani inglesi, studiosi, facoltosi, borghesi, talvolta omosessuali, traditori di Londra per la “Grande Madre Russia”.
Come con Philby e l’incredibile vicenda dell’ex padrino della Nissan Carlos Ghosn, la fuga è una delle crune più affascinanti del destino umano. «L’unico mezzo per continuare a sognare», secondo Jim Morrison, quella «momentanea distrazione per sparire» direbbe David Grossman, un istinto imperituro nelle nostre anime imperfette, irrazionali, irresponsabili. Perché la fuga incarna ogni sfumatura dell’umano, il rischio, il successo, il fallimento. La fuga è il trionfo del bene come l’evasione di Alfred Wetzler e Rudolf Vrba da Auschwitz nel 1944 nascosti per giorni tra legno, tabacco e benzina per evitare i cani nazisti, e poi via, travestiti, verso la Slovacchia per svelare al mondo l’orrore del lager. Ma la fuga può essere anche vergognosa infamia, come quella del nazista Herbert Kappler, condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine ma dissoltosi nel Ferragosto 1977 dall’ospedale militare del Celio a Roma, si dice nascosto dalla moglie in una valigia, un po’ come la leggenda di Ghosn.
«Dicono che fuggire non sia un gesto molto nobile. Ma è così piacevole», scrive Amelie Nothomb. La vita, la Storia e le arti ne saranno sempre rigogliosi. “La fuga di Alcatraz” del 1962, poi filmata dal genio essenziale di Clint Eastwood, ne è l’archetipo perfetto: un penitenziario sull’isolotto, le fredde acque della Baia di San Francisco intorno. Impossibile fuggire. E invece i criminali Frank Lee Morris e i fratelli Clarence e John Anglin forse ce la fanno quella notte, come ci sarebbero poi riusciti il “Chapo” Guzman o Pascal Payet, l’omicida francese che si dileguava dalle carceri in elicottero, o l’inafferrabile Frank Abagnale alias Leonardo Di-Caprio in “Prendimi se ci riesci”. È l’inossidabile mito della fuga, il suo elogio non solo esistenziale come nel ma nifesto di Henri Laborit, ma carnale, viscerale, talvolta horror, come Anthony Hopkins nel “Silenzio degli Innocenti” che scappa dalla cella indossando la faccia di un poliziotto appena scuoiato.