Libero, 2 gennaio 2020
Quando muore il gatto
Il tono, in genere, è canzonatorio: «Che c’è, ti è morto il gatto?». Poi un giorno sì – rispondi – mi è morto il gatto, mi è davvero morto il gatto, è morto all’alba del 1° gennaio 2020: e tu, con le tue domande canzonatorie, non puoi nemmeno immaginare – nemmeno lontanamente – il dolore che provo ora, e quanto m’importerebbe di meno, tutto sommato, se a morire fossi stato tu, che sei un essere umano di mero passaggio in questa mia vita. Tu non mi sei stato vicino per lustri interi della mia esistenza, di notte e di giorno, non hai condiviso un patto di cinica onestà che è quanto di meglio due esseri viventi – umani o animali, che poi non c’è nessuna differenza biologica – possano vivere insieme. Tu deridi questo mio lutto e lo consideri accessorio, trascurabile, perché relativizzi la morte di un cosiddetto «animale da compagnia» che poi è un’espressione giusta ma anche cretina, che giustificherebbe anche l’esistenza degli «umani da compagnia»: perché tu, semplicemente, non capisci e non sai, e accetti – come me – che siano dei lutti considerati di terza categoria, che nelle biografie dei grandi o piccoli uomini non trovano spazio, accetti che un uomo che vive con degli animali si scriva che «vive solo», e insomma, che c’è, sei triste? Ti è morto il gatto? Sì, è morto il gatto di un giornalista di Libero, circostanza che, in redazione, ha trovato un’imprevista e incredibile solidarietà tanto da far proporre questo articolo, ciò che rende unico questo giornale (nel bene e nel male) e ufficializza che i giornalisti ormai sono così autoreferenziali da scrivere articoli se muore il gatto. Anzi, neanche: perché il sofferente, esattamente come avrebbe fatto per la scomparsa di un familiare, ha detto che di un fatto così personale non avrebbe mai scritto, e allora eccoci a scrivere per lui, a suo nome, certi di non rubare lettori ad articoli sul capodanno dei vip. Che poi non è, questo, un articolo sulla morte di un generico animale domestico, ma di un gatto. Perché un gatto è un gatto. Non è un altro animale, tantomeno un cane: e lo scrive chi ha avuto entrambi. Desmond Morris, forse il più celebre etologo vivente, non ha scritto un vendutissimo «Capire il cane», ha scritto il vendutissimo «Capire il gatto», testo dove dimostra di capirci poco anche lui. Un gatto è un gatto. La sua istintualità non spartisce nulla con quella del cane, i suoi occhi non hanno nulla dell’espressività umana e appunto canina che tradisce talvolta opportunismo, servilismo, un’affettività anche poco dignitosa, e una fedeltà talvolta prostituita al mantenimento e alla protezione: e lo scrivente, ripeto, è un ex proprietario di alano tedesco, una delle razze più dignitose e intelligenti in circolazione. Un gatto è un’altra cosa. La sua psicologia resta impenetrabile, resta il più selvatico tra i domestici, non faticheremmo a immaginarlo libero in natura (a un cane daremmo meno chance) e però in casa comanda indirettamente come una femmina, possiamo solo esserne complici, si ritiene discretamente il centro del mondo e non concepisce altro, non puoi davvero ammaestrarlo, non ci sono gatti da caccia o gatti poliziotto, i gatti si fanno i fatti propri e detestano gli imprevisti: eppure sanno esserti vicino come nessuno, comprendono misteriosamente l’infermo, il loro calore è leggendario. Omettiamo le sdolcinerie. Il paragone tra la compagnia degli umani e quella degli animali è un problema di chi, gli animali, non li ha mai avuti o non li ama davvero. Cinque anni fa il Papa si scagliò contro «le coppie sposate che preferiscono cani e gatti ai figli» come se tante coppie preferissero davvero i cani e i gatti, e non fosse, invece, che alcune coppie non riescono ad avere figli e allora prendono cani e gatti. Non riescono ad avere figli, magari, per via di leggi da medioevo (come quella sulla fecondazione eterologa) avallate dalla Chiesa.
Una crudeltà doppia, che accentua il senso di colpa di chi non è riuscito ad avere figli e poi, sventurato, si ritrova anche colpevole di essersi comprato un animaletto. Come se ci fossero coppie indecise tra un figlio e un labrador, o come se tanti di quei vecchietti che pascolano ai giardinetti col cagnolino, spesso, non abbiano la solitudine, abbiano un cane o un gatto e abbiano pure dei figli: solo che i figli non si fanno vedere mai. Ma queste sono basse sociologie. Scusatele. È semplicemente morto il gatto, e dunque se ne soffre da soli e da incompresi. È tutto. Forse li invidiamo pure nella morte, i gatti: per la naturalezza decorosa con cui se ne vanno, così come dal nulla, ogni volta, erano riapparsi. Forse invidiamo quel loro cervello così piccolo, elegante e più che sufficiente per tutto ciò che è davvero necessario, senza quell’eccedenza che noi riempiamo di ricordi, raffronti col presente e col passato, una memoria di una vastità che non ha confronti con nessun animale: così, noi, cerchiamo la Luna e siamo infelici; il gatto invece cerca i croccantini e l’infelicità non sa che cosa sia. Gli basta essere. Sinché un giorno non c’è più. È tutto.