Il Messaggero, 2 gennaio 2020
Gli errori dell’Italia sulla Libia
Dalla caduta del colonnello Gheddafi, nel 2011, la politica libica dei governi italiani si è dimostrata spesso velleitaria, sovente in ritardo nella lettura della situazione e dei comportamenti degli attori locali e dei players internazionali, complessivamente incapace di trarre le conseguenze dal riorientamento strategico degli Stati Uniti e sempre dirottata da un dibattito politico domestico esclusivamente ossessionato dal blocco dei flussi migratori.
Così, mentre Washington è riuscita in soli otto anni a trasformare quello che era di fatto un lago americano in un mare contendibile da vecchi rivali (la Russia), ex alleati (la Turchia) e nuovi sfidanti (la Cina), Roma si ritrova con l’incubo della perdita della Libia.
Italia e Stati Uniti, su scala diversa, rischiano cioè di pagare il prezzo più alto per la crisi (dopo i libici, ovviamente). Per quanto riguarda Washington, l’ondivaga politica di Donald Trump rispetto a Cina, Russia e Turchia, ha finito con l’acuire e rendere forse irreversibili gli errori di valutazione commessi dal predecessore Barack Obama, che nel 2011 diede il semaforo verde all’iniziativa franco-britannica contro il colonnello e nel 2014 consentì l’escalation militare russa in Siria.
Ne è derivata la perdita dell’egemonia americana nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, l’intensificazione della partnership russo-cinese (si veda tra l’altro l’esercitazione navale comune allargata all’Iran in corso nel Golfo Persico) e la relazione speciale inaugurata nel Levante tra Ankara e Mosca.
Proprio quest’ultima potrebbe però insegnarci qualcosa. Al di là del fatto che Russia e Turchia (rivali secolari) si ritrovino a sostenere fazioni diverse in Libia, l’elemento di novità è la cornice in cui essa si sta sviluppando, capace di tenere insieme quadranti geografici distinti come il Mediterraneo orientale e quello centrale, interessi strategici e interessi energetici. Sia Mosca che Ankara hanno fin qui dimostrato di sapersi muovere con estrema disinvoltura, alternando l’impiego di strumenti militari, economici e ideologico-propagandistici per conseguire i propri obiettivi. L’accelerazione dell’escalation nel sostegno alle diverse fazioni e milizie raccolte intorno a Serraji e Haftar non ha mai però significato la determinazione a risolvere militarmente la crisi. Ma piuttosto la possibilità di imprimere il proprio segno su qualunque soluzione politica si prefiguri.
Noi dobbiamo muoverci rapidamente per evitare che l’eventuale materializzarsi di un simile accordo pregiudichi i nostri interessi nazionali. Anche per l’Italia si tratta di giocare una partita a più livelli (sicurezza, energia, flussi migratori), lavorando sulle difficoltà dell’intesa russo-turca e dialogando con più interlocutori (Stati Uniti, alleati europei, Russia, Turchia, Egitto), dei quali Haftar e Serraji rappresentano, paradossalmente, quelli per noi oggi meno decisivi. È evidente che il rafforzarsi della presenza russa e turca nel Mediterraneo mette a rischio il ruolo di Ue e Nato. Altrettanto chiaro è che, allargando appena lo sguardo, esistono opportunità e necessità di cooperazione energetica che sono tanto rilevanti quanto quelle di competizione: per cui in molti hanno parecchio da perdere da una crisi che andasse fuori controllo e nessuno ha interesse a un Mediterraneo in fiamme.
Detto ciò, la relazione privilegiata con la Libia la abbiamo persa nel 2011. Aver cercato di ricostruirla in un quadro regionale e internazionale così mutato, pensando pressoché solo a bloccare profughi e migranti e con la tipica tendenza al velleitarismo (conferenze di Roma e Palermo, cabina di regia) ma con la consueta scarsa disponibilità ad assumerci rischi o a cercare intese con i competitors è stata una perdita di tempo. Impariamo dai turchi e dai russi. A triangolare, a giocare di sponda, a capire che in un quadro mutevole dobbiamo elaborare strategie flessibili, aprire agli interlocutori, assumerci rischi: cercando le convergenze possibili e vantaggiose per noi e contribuendo a rendere troppo costose quelle altrui che ci danneggiano.