il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2019
Il bruttissimo film della figlia di Fuksas
Non va bene la trama, non va bene la realizzazione, non va bene la recitazione, non va bene la pellicola, non va bene la custodia della pellicola, non va bene neppure che i fratelli Lumière abbiano inventato il cinema senza prevedere che un giorno sarebbe arrivata Elisa Fuksas con The App come chi ha inventato l’energia atomica non ha previsto che un giorno sarebbe arrivato Truman con Hiroshima. PER MEGLIO comprendere la bruttezza travolgente di questo film, vi devo dare dei riferimenti perché non vorrei vi convinceste che sia una scialba questione di gusti. C’è un’oggettività spietata e onesta nella bruttezza di questo film che supera il giudizio di una donna sul proprio culo davanti allo specchio. Il riferimento cinematografico più o meno dichiarato della regista è Her, capolavoro di Spike Jonze. Quello inconscio della regista è The Lady, ciofeca cult di Lory Del Santo. E non scherzo. Prendete tutti gli elementi di The Lady–dialoghi surreali, scene inutili, il jet set stereotipato, le telefonate che dettano il ritmo della narrazione, le location inutilmente patinate, la recitazione oltraggiosa – aggiungete il tema app di incontri trattato con la profondità di una piscinetta di plastica, moltiplicate il budget per mille e avrete The app. La storia è più o meno questa (contiene spoiler ma tanto non arriverete mai alla fine del film da svegli, quindi il mio è servizio pubblico): lui è un attore che si innamora di un algoritmo tanto da trascurare lavoro e affetti, l’algorit – mo a un certo punto gli dice “tanti cari saluti” e la app muore. Se vi sembra la trama di Her è perché è la trama di H er, mescolata a fanatismo religioso, maternità indesiderate, un paio di scene di sesso buttate lì per fare ciccia e l’autoflagellazione, che tu vedi la povera attrice sanguinante col cilicio e pensi che sia nulla rispetto alla punizione di recitare in questo film. Poi sì, c’è la recitazione. Il mistero per cui il protagonista parli italiano, la sua fidanzata con un vago accento de ll ’est e il regista del film parli inglese è qualcosa che deve avere a che fare con un’idea del tipo: il tizio burbero che parla in inglese nel film è una nota esotica, dà respiro internazionale alla pellicola, è una di quelle robe per cui in Italia ci si stupisce ancora, tipo Cattelan a X Factor che chiede “How are you?” a Robbie Williams e tutti a twittare “Che gran professionista Cattelan!”. Ecco: che gran film The app! C’è Abel Ferrara che sbraita in inglese! Perché tra parentesi, il tizio esotico è davvero Abel Ferrara. Come in The Lady c’è il cameo di Maccio Capatonda, qui c’è Abel. Il dubbio che sia stato fatto recitare in inglese con gli altri che recitavano in italiano perché così non capisse una cippa della sceneggiatura, il dubbio che sul set fosse un po’il bambino de La vita è bellain cui tutti gli facevano credere di essere in un ingranaggio meraviglioso è forte, ma non ne ho le prove. Ci sono invece le prove, ahimè, che The app sia stato scritto, approvato, prodotto e mandato in onda. Come sia possibile non è chiaro, ma non è certo perché la Fuksas è figlia di cotanto padre. Lei supera di una spanna l’inge – gno paterno. Il padre non sarebbe mai stato capace di architettare una struttura che non sta in piedi ma viene costruita lo stesso, con investitori, capo-cantiere, collaudatori che dicono “B r av o, bravissimo, avanti tutta!” pur sapendo che al taglio del nastro collasserà. C’È DEL GENIO, in Elisa Fuksas. E sbaglia chi dice che The app è un po’ Black Mirror, perché Black Mirrorè distopico. The app è dispotico. Lo guardi e vuoi che ritorni un despota, un regime qualunque, un Istituto Luce che applichi la censura sulla cinematografia mondiale. Vuoi Goebbels al posto di Franceschini. E pensi pure che sia necessario, perché vi giuro, basterebbe proiettare The appsu un mega schermo, in una piazza qualunque, e le sardine si trasformerebbero in black bloc. Basterebbe specificare che la regista è la figlia di Fuksas per tornare alle rivolte operaie. Basterebbe specificare che è un film prodotto da chi produce anche Virzì o la Archibugi, per far sentire tutti metalmeccanici sfruttati. C’è un unico aspetto positivo in questa faccenda: The app è così inevitabilmente brutto che è destinato a diventare un cult. E un giorno, potete scommetterci, arriverà qualcuno che girerà un The Disaster A rt is t sulla storia di questo film. Anzi, un Disaster artist’s daughter. Sapremo così cosa pensava davvero il povero protagonista Vincenzo Crea quando recitava con un pitone gigante nel letto dell’hotel Parco dei Principi tentando di strozzarlo o Greta Scarano quando doveva caricarsi sulla schiena una croce di lampade led e tutto il set quando ad ogni scena drammatica doveva soffocare le risate nel collo della t-shirt. Perché una cosa è certa: la Nuvola di Massimiliano Fuksas non resisterà all’usura del tempo, mentre The appdi Elisa Fuksas resterà lì per sempre. Capolavoro immortale come The Ladyed eterno monito come i reattori di Chernobyl.