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 2019  dicembre 31 Martedì calendario

Gli anni Venti del Novecento

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Arrivarono gli anni ’20 e il Novecento fece il suo ingresso nella storia. Per un momento si pensò che, dopo aver smaltito l’immensa carneficina della prima guerra mondiale, il mondo avrebbe potuto ritrovare la compostezza e la stabilità del vecchio ordine ottocentesco. Non fu così. Niente più belle époque, nessuna ottimistica illusione su un progresso senza limiti, smarrita ogni fiducia sull’equazione capitalismo+democrazia= sviluppo. Così, per l’Europa, quel decennio significò la vittoria del fascismo in Italia e dello stalinismo in URSS, l’inizio, in Germania, della irresistibile ascesa di Adolf Hitler, un complessivo arretramento dei regimi democratici e l’avvio delle convulsioni di un sistema politico internazionale destinato a schiantarsi nella tragedia della seconda guerra mondiale.
Ci fu solo un paese in cui sembrò potersi riaffacciare la spensieratezza di prima della guerra, gli Stati Uniti che vissero allora quelli che furono definiti “gli anni folli”.
Rispetto alle altre potenze coinvolte nel conflitto mondiale, gli USA godevano del duplice vantaggio di essere stati solo sfiorati dalle distruzioni belliche e di disporre già di un notevole apparato industriale. Così, proprio intorno alla metà degli anni ’20, sembrò materializzarsi il “sogno americano” di essere la prima nazione al mondo ad avere definitivamente risolto i problemi della crescita economica e dell’armonia sociale. Tra il 1922 e il 1929 la produzione industriale aumentò del 50%, il reddito nazionale del 42%. Ad affiorare era il lato più rutilante del ‘900, proponendo al mondo intero il fascino e la seduttività della civiltà di massa. Tutto doveva essere “grande”, secondo quanto suggeriva la facile simologia dell’Empire State Building. I mezzi di comunicazione erano “di massa” ed erano in grado di penetrare in profondità nei meccanismi di formazione dell’opinione pubblica. Gli spettacoli sportivi diventarono “di massa": a Chicago, alla sfida mondiale tra i pugili pesi massimi Dempsey e Tunney, presenziarono 145.000 spettatori. “Di massa” fu il successo del cinema, che proprio allora passava dal muto al sonoro, indirizzando i gusti del pubblico secondo alcuni “generi”, fra i quali dominavano la commedia rosa e i western con un immancabile lieto fine. E su tutto dominava l’automobile, mezzo di trasporto ma anche simbolo del nuovo modo di vivere e di lavorare. Cominciava allora a delinearsi una diversa qualità della vita, con una drastica e irreversibile trasformazione dello spazio quotidiano dell’uomo. Il mondo diventava più piccolo e più accessibile: tra il 1922 e il 1923 fu attraversato il deserto del Sahara in automobile; nel 1927 toccò all’americano Charles Lindbergh volare con il suo piccolo aereo sull’oceano Atlantico, dagli Stati Uniti all’Europa, senza scalo. Nelle città americane esplodeva la voglia di dimenticare i sacrifici e l’austerità della guerra. Arrivò il jazz, la musica popolare della civiltà industriale, il segnale di un nuovo modo di ballare, di esprimersi, spontaneo, naturale, senza regole. Nei night club, alla legge sul proibizionismo, si rispondeva con un cocktail tumultuoso di divertimento e violenza, corruzione e racket, abbandonandosi a nuovi frenetici balli come il charleston. La flapper, la “monella” spregiudicata, è ancora oggi l’immagine-simbolo di quell’ America. Gonna sopra il ginocchio, trucco sfacciato, economicamente autosufficiente, la flapper, oltre che un segno dei tempi, rappresentava anche la conferma di una effettiva ascesa sociale delle donne, che riuscirono a strappare alcune conquiste significative, dall’estensione del diritto al voto alla possibilità di accedere alle carriere impiegatizie e dirigenziali.
Poi, però, venne il 1929, il rovinoso crollo della borsa di Wall Street, e la flapper smise di svolazzare, il suo sfarfallio si stemperò in un mesto ripiegamento su se stessa: le gonne si riallungarono e le donne furono le prime a essere espulse dal processo produttivo in conseguenza della grande crisi; molte tornarono a fare le casalinghe. E con la fine degli anni folli anche gli USA si allinearono al pessimismo cupo del mondo intero.
Arrivarono gli anni ’20 e il Novecento fece il suo ingresso nella storia. Per un momento si pensò che, dopo aver smaltito l’immensa carneficina della prima guerra mondiale, il mondo avrebbe potuto ritrovare la compostezza e la stabilità del vecchio ordine ottocentesco. Non fu così. Niente più belle époque, nessuna ottimistica illusione su un progresso senza limiti, smarrita ogni fiducia sull’equazione capitalismo+democrazia= sviluppo. Così, per l’Europa, quel decennio significò la vittoria del fascismo in Italia e dello stalinismo in URSS, l’inizio, in Germania, della irresistibile ascesa di Adolf Hitler, un complessivo arretramento dei regimi democratici e l’avvio delle convulsioni di un sistema politico internazionale destinato a schiantarsi nella tragedia della seconda guerra mondiale.
Ci fu solo un paese in cui sembrò potersi riaffacciare la spensieratezza di prima della guerra, gli Stati Uniti che vissero allora quelli che furono definiti “gli anni folli”.
Rispetto alle altre potenze coinvolte nel conflitto mondiale, gli USA godevano del duplice vantaggio di essere stati solo sfiorati dalle distruzioni belliche e di disporre già di un notevole apparato industriale. Così, proprio intorno alla metà degli anni ’20, sembrò materializzarsi il “sogno americano” di essere la prima nazione al mondo ad avere definitivamente risolto i problemi della crescita economica e dell’armonia sociale. Tra il 1922 e il 1929 la produzione industriale aumentò del 50%, il reddito nazionale del 42%. Ad affiorare era il lato più rutilante del ‘900, proponendo al mondo intero il fascino e la seduttività della civiltà di massa. Tutto doveva essere “grande”, secondo quanto suggeriva la facile simologia dell’Empire State Building. I mezzi di comunicazione erano “di massa” ed erano in grado di penetrare in profondità nei meccanismi di formazione dell’opinione pubblica. Gli spettacoli sportivi diventarono “di massa": a Chicago, alla sfida mondiale tra i pugili pesi massimi Dempsey e Tunney, presenziarono 145.000 spettatori. “Di massa” fu il successo del cinema, che proprio allora passava dal muto al sonoro, indirizzando i gusti del pubblico secondo alcuni “generi”, fra i quali dominavano la commedia rosa e i western con un immancabile lieto fine. E su tutto dominava l’automobile, mezzo di trasporto ma anche simbolo del nuovo modo di vivere e di lavorare. Cominciava allora a delinearsi una diversa qualità della vita, con una drastica e irreversibile trasformazione dello spazio quotidiano dell’uomo. Il mondo diventava più piccolo e più accessibile: tra il 1922 e il 1923 fu attraversato il deserto del Sahara in automobile; nel 1927 toccò all’americano Charles Lindbergh volare con il suo piccolo aereo sull’oceano Atlantico, dagli Stati Uniti all’Europa, senza scalo. Nelle città americane esplodeva la voglia di dimenticare i sacrifici e l’austerità della guerra. Arrivò il jazz, la musica popolare della civiltà industriale, il segnale di un nuovo modo di ballare, di esprimersi, spontaneo, naturale, senza regole. Nei night club, alla legge sul proibizionismo, si rispondeva con un cocktail tumultuoso di divertimento e violenza, corruzione e racket, abbandonandosi a nuovi frenetici balli come il charleston. La flapper, la “monella” spregiudicata, è ancora oggi l’immagine-simbolo di quell’ America. Gonna sopra il ginocchio, trucco sfacciato, economicamente autosufficiente, la flapper, oltre che un segno dei tempi, rappresentava anche la conferma di una effettiva ascesa sociale delle donne, che riuscirono a strappare alcune conquiste significative, dall’estensione del diritto al voto alla possibilità di accedere alle carriere impiegatizie e dirigenziali.
Poi, però, venne il 1929, il rovinoso crollo della borsa di Wall Street, e la flapper smise di svolazzare, il suo sfarfallio si stemperò in un mesto ripiegamento su se stessa: le gonne si riallungarono e le donne furono le prime a essere espulse dal processo produttivo in conseguenza della grande crisi; molte tornarono a fare le casalinghe. E con la fine degli anni folli anche gli USA si allinearono al pessimismo cupo del mondo intero.