la Repubblica, 31 dicembre 2019
Olga Tokarczuk e Giacomo Leopardi nel gabinetto dei feti
È difficile dare un’idea de I vagabondi (Bompiani), opera del recente Nobel polacco Olga Tokarczuk. Più che un romanzo, è una narrazione aperta e dunque teoricamente infinita che pone in primo piano l’esigenza di muoversi e di privilegiare il movimento, individuale e collettivo, rispetto allo stare fermi: che è poi un modo per indagare la vita contrapposta alla morte. Si parte da un dato autobiografico (la scrittrice bambina ferma nella sua stanza) e forse si resta in qualche modo sempre ancorati alla autobiografia, spaziando, è il caso di dirlo, per cieli e terre, vicende recenti e storie antiche, avendo cura di prospettare un curioso sussidio psicologico per i viaggiatori, sotto forma di interventi da parte di personale preparato da effettuare negli aeroporti, tipo pronto soccorso per la mente.
I vagabondi è un libro-cattedrale, nel quale ci si muove con stupore, attenzione improvvisa per un particolare, immedesimazione, raccoglimento, voglia di andarsene da un’altra parte subito soddisfatta dall’apertura di un nuovo sorprendente capitolo. Ci si sposta nello spazio, ma anche in quello spazio particolare che è il web. Ci si muove nel tempo, magari per assistere alla morte di Chopin e seguire da vicino i suoi funerali in Francia e la traslazione del suo cuore a Varsavia, portato dalla vedova in un vaso appeso sotto un’ampia gonna o per passare senza ispezioni la dogana.
La scrittrice lo dichiara apertamente: non ama i tradizionali musei pieni di opere d’arte. Preferisce visitare i gabinetti di curiosità anatomiche, come ce ne sono in alcuni ospedali e fermarsi a osservare feti sotto spirito e organi umani o interi corpi conservati, come si diceva, per ragioni di studio. Così, precipitando nelle Fiandre del 1648, facciamo conoscenza con Philip Verheyen, un giovane molto dotato e in procinto di studiare teologia. Una sera, rientrando nella stanza che affittava da una vedova, si ferì con un chiodo e la ferita presto si infettò. Quando il dottor Dirk Kerckring lo visitò, non poté che constatare il procedere della cancrena e dovette amputargli una gamba. E Philip scrive una lettera alla sua gamba, ragionando del dolore fantasma che prova in un arto che non c’è più.
Poche pagine dopo si entra nel teatro anatomico del dottor Ruysch, dove noi lettori italiani eravamo già stati perché Ruysch è il protagonista di una celebre Operetta Morale di Giacomo Leopardi, appunto il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Lo stesso Leopardi annotava che in realtà in linguaggio scientifico bisognerebbe parlare non di mummie ma di preparazioni anatomiche e rinvia a Fontenelle che di Ruysch aveva scritto un elogio.
Sia Leopardi che Olga Tokarczuk, che si incontrano molto probabilmente senza saperlo, ricordano l’interesse dello zar Pietro I (detto il Grande) per le meraviglie anatomiche di Ruysch. Finì per comprarle, spendendo trentamila fiorini. Racconta la scrittrice polacca: «Gli venivano i brividi quando guardava i feti umani e non riusciva a smettere di osservarli, tanto era affascinante lo spettacolo. E le strutture delle ossa umane, così teatrali ed eccentriche da farlo sprofondare nella contemplazione. Voleva a tutti i costi quella collezione».
Leopardi, che alleggerisce il tema con qualche battuta di spirito, immagina che le mummie improvvisamente si sveglino per una strana congiunzione astrale e per un quarto d’ora ritrovino la parola. Ruysch interroga dunque uno dei morti sul significato della morte: «Dunque che cosa è la morte, se non dolore? Morto: Piuttosto piacere che altro… perché il piacere non sempre è cosa viva, anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza…». Insomma, man mano che ci si avvicina alla morte, il dolore se ne va e si muore un po’ come ci si addormenta, per gradi, quasi senza accorgersene. Leopardi cita il medico napoletano Domenico Cirillo che aveva pensato che la morte abbia un che di dilettevole.
Non c’è relazione diretta tra le pagine di Leopardi e quelle di Tokarczuk, ma c’è una consonanza, una fascinazione letteraria o, per dirla in altre parole, un’interrogazione comune sul corpo che muore.
A confronto Olga Tokarczuk, 57 anni e, in alto, un ritratto di Giacomo Leopardi (1798-1837)