Corriere della Sera, 31 dicembre 2019
Biografia di Natalia Goncharova
A Firenze il confronto fra due autoritratti di Natalia Goncharova, quello – con gigli gialli (1907-1908) – e quello – in abito d’epoca (1907-1908 circa) – è significativo. Sono esposti, con altre 130 opere, in Natalia Goncharova, fino al 12 gennaio a Palazzo Strozzi. Nel primo autoritratto una stesura pittorica densa, cézanniana ma senza dimenticare Gauguin; dietro sono appoggiati al muro quadri con figure, paesaggi, forse nature morte. Nel secondo dipinto la stesura è ancora postimpressionista ma, dietro, i quadri con paesaggi diventano come carte da parati, e l’abito, da solo, vuol dire recupero delle tradizioni della antica Russia, vuol dire mondo contadino e identità di un popolo. Su questi temi alle Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari di Vicenza l’artista russa dialoga con i suoi «colleghi-connazionali» nella mostra Kandinskij, Goncharova, Chagall.
La storia di Natalia Goncharova, nata nel governatorato di Tula, in Russia, nel 1881, iniziata alla pittura a Mosca dal 1901, iscritta dal 1904 al 1909 alla Scuola di pittura, è nel segno della ricerca delle proprie radici e di quelle di un intero popolo. Certo, il compagno di una vita, Mickhail Larionov le fa un ritratto nel 1915 pensato come un collage picassiano postcubista, ma la pittrice voleva andare oltre le avanguardie occidentali, oltre i Cézanne, i Picasso che vedeva a Mosca nella collezione Morazov, semmai le interessavano i grandi dipinti di Gauguin, con un modulato recupero del primitivo, e le stesure piatte, fiorite di figure come appiattite, di Henri Matisse conosciuto ben prima de La danza e Musica, dal 1911 nella collezione Shchukin a Mosca. E proprio dal pittore francese muovono sia il ritmo compositivo di La raccolta delle mele (1909), sia la scrittura pittorica di Contadina del governatorato di Tula (1910) attenta al recupero dei modi e della identità dei costumi popolari. Certo la pittrice continua il dialogo con le avanguardie, evidente in due dipinti del 1913, Ciclista e Aeroplano su treno, dove il movimento, la compenetrazione delle forme sottolineano il dialogo coi futuristi e poi con Marinetti, a Mosca nel 1914, un dialogo che anche l’amico Vladimir Majakovskij propone in poesie come in Da una via all’altra (1913): «Attra-/ verso/ i cavalli di ferro/ dalle finestre delle case in fuga/ sono saltati giù i primi cubi. Cigni dei colli dei campanili,/ curvatevi nei cappi dei fili». E ancora in Il grande inferno della città (1913): «Le finestre schiantarono il grande inferno della città/ in piccoli inferni poppanti con le luci./ Diavoli rossicci, le automobili s’impennavano,/ facendo esplodere le trombe proprio sotto l’orecchio». Per il poeta la città è una macchina dove un tram, un’automobile scardinano lo sguardo col movimento.
Ormai la Goncharova ha maturato una visione diversa della funzione dell’artista nella cultura russa e sceglie due strade, quella del recupero della cultura popolare, e quella del dialogo con la civiltà delle icone che proprio allora alcuni grandi collezionisti, come Pavel Tretyakov, avevano iniziato a raccogliere e ad esporre. Vecchio con sette stelle (1910) oppure San Giorgio vittorioso (1914) sono il segno della programmatica ripresa del linguaggio astratto, simbolico delle icone; la nuova ricerca diventa polemica violenta nella serie Immagini mistiche della guerra (1914) dove angeli come aeroplani distruggono la città mentre altri angeli, ad ali spiegate, stanno sospesi su una distesa di cadaveri. Goncharova e Larionov vivono l’entusiasmo della rivoluzione nel 1917 e sono a fianco di Wasilij Kandinskij nella organizzazione dei musei della civiltà contadina. Poi, progressivamente, gli interessi si spostano in occidente, al seguito di Diaghilev coi Ballets Russes prima in Spagna nel 1916 e poi in Italia nel 1917, e infine a Parigi dove la Goncharova e Diaghilev si stabiliranno. Progressivamente la memoria delle tradizioni popolari russe si trasforma in memoria di mondi perduti: così nei figurini per Le coq d’or (1937) l’imperatrice è una zarina evocata da antichi mosaici e le stanno a fianco contadine in abiti popolari; e, ancora, nella scena finale de L’uccello di fuoco (1954) la città russa diventa una sognata parete di chiese e di campanili a bulbo. Certo in Mistero Buffo (1918) l’amico Majakovskij sognava così la rivoluzione: «Noi architetti del globo,/ decoratori di pianeti, noi taumaturghi di portenti,/ legheremo i raggi in mazzi di scope,/ per spazzare con l’elettricità, le nubi dai cieli,/ di stelle lastricheremo sulla terra le strade,/ nei fiumi dei mondi verseremo il miele». Ma nella Russia di Stalin il mondo intero delle avanguardie era finito e Majakovskij si era ucciso nel 1930. Eppure i due artisti, vissuti per decenni e morti in Francia, Goncharova nel 1962 e Larionov nel 1964, destineranno alla Russia le loro opere, il loro archivio, la loro memoria.