Corriere della Sera, 30 dicembre 2019
In ricordo di Fellini
Se anche non ci fossero i suoi grandi film a testimoniare la forza immaginifica, quello comunque che è incantevole in Federico Fellini è il suo modo di parlare, di scegliere i vocaboli e farli correre a ruota libera sul filo d’una fantasia assolutamente unica. Il suo modo di incastrare tra loro i termini, poi le frasi, i periodi, è grandioso e non ha rivali, è sotto dettatura del suo inconscio. Lo si nota rileggendo le preziosissime 188 pagine della bellissima intervista che gli fece nel 1983 Giovanni Grazzini per Laterza e che ora, in occasione dei cento anni dalla nascita (convegno a Milano il giorno del battesimo, il 20 gennaio), Il Saggiatore ripubblica e titola Sul cinema con uno scritto di Filippo Tuena.
Come allora, colpisce la fluidità dei mini racconti del regista (non si possono chiamare risposte), certo la memoria, con episodi ghiotti su De Sica o Rossellini, ma la meraviglia è come il regista àncora la fantasia al reale e viceversa, proclama che il cinema fa da solo, non ha bisogno di letteratura, davanti all’obiettivo uno mette sempre e solo se stesso. Basti dire che all’inizio Fellini chiede a Grazzini: «Annusi, nella stanza sente odore di vecchio?» (il termine che usa Servillo in La grande bellezza); poi parlerà anche dell’odore delle bucce di patate e delle sottane delle suore.
Rispondendo dalla scrivania con 129 penne a sfera, 21 lapis, 18 pennarelli, il regista inizia col suo ottovolante di parole, dice che gli piace aver paura perché è dalle zone profonde e oscure che nascono i suoi personaggi, scansa le domande dirette, dice di non avere delle opinioni, poi parlando dal suo retrobottega di Cinecittà ci spiega tutto. Non a caso, da junghiano svezzato dal prof. Bernhard, fan della «sincronicità», rivela che se il sogno è l’inconscio di un singolo, l’arte è l’attività onirica dell’umanità. Fellini aveva finito allora E la nave va, capolavoro un po’ nascosto, e si avvicinava al periodo più difficile, quando non era facile organizzare le «baracchette», i film. Quando parla dei ricordi di celluloide ribalta i tavoli cinefili, glissa sui classici, pur inchinandosi a Bergman, Kurosawa e Buñuel, ma adora i grandi comici – Keaton, Charlot, Stanlio e Ollio, i Marx, Gianni e Pinotto e Benigni – e gli sarebbe piaciuto un film sul cine Fulgor di Rimini dove vide bimbo Maciste all’inferno.
Se il Fellini di Amarcord è noto a tutti (dice che ha svuotato la memoria e non riconosce più il vero dal falso), meno noti sono alcuni dei suoi progetti inevasi (a parte il Mastorna), per esempio un film con una trentina di bambini di 2 o 3 anni in un caseggiato periferico: «Quei bambocci sono depositari di grandi ricchezze, hanno una piccola immensa cassaforte dentro la testa». Gli piaceva far ridere la gente, «la più privilegiata delle vocazioni, un po’ come quella dei santi» e ammira, trincerandosi dietro falsa ignoranza, Kafka (un altro progetto fu America), Steinbeck, Faulkner, letti mentre disegnava al «Marc’Aurelio». Con Rossellini («Paisà era bello e solenne come un canto gregoriano») scoprì che il cinema si poteva fare così, «in quella maniera disinvolta e monellesca, un happening tra la vita e la sua rappresentazione», per cui forse potevamo sfidare anche Gary Cooper e Clark Gable. Smitizza un po’ il circo, ama gli attori con le loro vanità (la gara di auto da corsa con Mastroianni) e confessa che non andava tanto al cine: gli piaceva molto fantasticare davanti ai cartelloni.
Da uomo spiritoso, gli basta un accenno per ricreare un clima: l’alba livida attesa sui set di Luci del varietà mentre Peppino De Filippo raccontava Scarpetta. Su tutto vince il fascino di quella confusione che ha magnificamente raccontato in 8½ : «Credo di essere naturalmente religioso perché il mondo, la vita, mi sembrano avvolti di mistero… Provo un sentimento di gratitudine per tutte le ammaccature, le oscurità, i tabù che hanno costituito un immenso materiale dialettico».
Viaggiare? Anche no. E quando parla di New York come di un’astronave liberata nel cosmo e dei mesi americani, in attesa che si convincesse a girare un film lontano dalle sue radici, è un giro di giostra meraviglioso. E poi, come dimostra La dolce vita, è un gran profeta: «Essere approssimativi è un connotato nostro, tipicamente italiano, un’attitudine psicologica che coltiviamo da sempre con cura compiaciuta».