Corriere della Sera, 30 dicembre 2019
L’alba dell’euro
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Il comunicato finale del Consiglio Europeo dei capi di Stato e di governo riunito ad Hannover il 27 e 28 giugno 1988 ricordava che nell’Atto unico del 1986 «gli Stati membri avevano indicato la volontà di realizzare gradualmente l’Unione economica e monetaria» e dava notizia dell’istituzione di un Comitato di saggi con il compito di riferire sui mezzi per giungere a tale Unione in vista del Consiglio Europeo di Madrid che si sarebbe tenuto nel giugno 1989. La sorpresa era stata la proposta del presidente francese François Mitterrand e del Cancelliere tedesco Helmut Kohl di dar vita a quel Comitato e di affidarne la guida a Jacques Delors, presidente della Commissione Europea, notoriamente fautore dell’idea di una moneta unica europea.
Alcuni governi erano favorevoli all’idea, ma la maggior parte era scettica. L’opposizione più forte veniva dalla Gran Bretagna, fredda sul Comitato, contraria alla presidenza di Delors che era la bestia nera della signora Margaret Thatcher. Quello che contava di più era l’ostilità delle banche centrali, salvo la Banca d’Italia guidata da Carlo Azeglio Ciampi e la banca di Spagna. La più importante, la Bundesbank, non nascondeva la sua contrarietà. Il suo presidente, Karl Otto Pohl, aveva dichiarato: «In un’unione monetaria con tassi di cambio fissati irrevocabilmente i deboli diventerebbero più deboli e i forti più forti. Nascerebbero grandi tensioni nell’economia reale europea».
Dietro questo argomento c’era anche la preoccupazione tedesca che una moneta unica avrebbe finito per imporre alla Germania di farsi carico dei debiti di altri Paesi. L’Italia era (allora come oggi) l’oggetto principale di questa preoccupazione.
Eppure, in meno di un anno e in sole sette riunioni, nell’aprile 1989 il Comitato concluse i suoi lavori proponendo un percorso in tre tappe verso la creazione di una moneta comune e di una banca centrale europea. Era stata un’impresa difficile, che scatenò la furia della signora Thatcher e le riserve di molti governi. Come era stato possibile?
La decisione di mantenere un sistema di cambi fissi in seno alla Comunità Europea era stata una scelta obbligata dopo la fine di Bretton Woods decretata dagli Stati Uniti nel 1971, ma sia l’accordo fra le banche centrali del 1972 – il «serpente monetario» – sia lo Sme creato nel 1978 avevano rivelato la loro fragilità.
I riallineamenti erano stati molteplici e nel caso della lira furono ben sei fino all’uscita dallo Sme nel settembre 1992. Molti erano convinti che il sistema dei cambi fissi non potesse funzionare: o cambi flessibili o moneta unica. Ma una moneta unica – aveva detto un Cancelliere dello Scacchiere britannico – implicava un bilancio europeo e in prospettiva uno Stato federale, che non era all’ordine del giorno né lo sarebbe stato mai.
In queste condizioni, che il Comitato riuscisse a trovare un accordo appariva quasi impossibile, ma Jacques Delors mostrò doti diplomatiche formidabili. La prima idea fu di chiamare a far parte del Comitato proprio i governatori delle banche centrali dei dodici Paesi membri: con la loro autorevolezza erano in grado di avallare l’idea o distruggerla. Fino ad allora erano stati prevalentemente contrari. Sarebbe stato cruciale convincerli. Si specificò che essi avrebbero fatto parte del Comitato «a titolo personale».
La signora Thatcher aveva dato istruzioni al suo governatore, Robert Leigh-Pemberton, di opporsi con tutte le sue forze, ma poiché non aveva di lui molta considerazione – lo giudicava un «loose cannon», che vuol dire una mina vagante – gli disse di attenersi alle posizioni di Pohl, di cui era nota la contrarietà. Il problema divenne come convincere Pohl. La cosa si dimostrò più semplice di quanto si potesse pensare.
Nella prima riunione Pohl partì all’attacco contro l’idea della moneta unica, ma Delors precisò che il mandato del Comitato non era di stabilire se la moneta unica fosse una buona idea. Il Comitato era chiamato a discutere come farla qualora i governi avessero preso tale decisione. Si trattava di stabilire quali compiti dovesse avere una Banca centrale europea e quali garanzie di indipendenza.
Spostato l’accento dalla scelta politica di fondo agli aspetti tecnici di una eventuale moneta unica, i governatori convennero rapidamente che lo statuto della Bundesbank poteva essere il modello al quale attenersi. Così Pohl si trovò a bordo quasi senza rendersene conto, trascinando con sé il povero Leigh-Pemberton, che la signora Thatcher, quando il Comitato concluse le deliberazioni all’unanimità, minacciò di mandare a processo, ma che altro non aveva fatto che attenersi alle istruzioni ricevute. Così nell’aprile 1989 si concluse il primo atto. Delors era riuscito a formulare un progetto che aveva il consenso delle banche centrali. Ma poiché la realizzazione richiedeva un nuovo trattato europeo, restava l’ostacolo dei dubbi di molti governi.
Il 26 e 27 giugno si riunì a Madrid il Consiglio europeo. Nel comunicato finale si leggeva: «Il Consiglio europeo ritiene che la relazione del Comitato presieduto da Jacques Delors risponda pienamente al mandato di Hannover e rappresenti una buona base per il proseguimento dei lavori... nella sua realizzazione si dovrà tenere conto del parallelismo fra gli aspetti economici e monetari, rispettare il principio di sussidiarietà e rispondere alla diversità delle situazioni specifiche».
Non vi era alcuna indicazione di come si sarebbe proceduto, né quando. La questione era stata messa en veilleuse, come dicono i francesi: in secondo piano. Tommaso Padoa-Schioppa, che aveva partecipato ai lavori del Comitato come rapporteur ed era fra i più fermi sostenitori della moneta unica, scrisse un articolo molto critico: era difficile che il progresso su questo terreno fosse rapido quanto quello sperimentato sul mercato unico. Implicitamente accusava i governi di non voler realizzare la moneta unica.
Che cosa fra l’estate e la fine dell’anno cambiò radicalmente la situazione? Qualcosa che nessuno si aspettava, nonostante i cigolii e gli scricchiolii del regime sovietico: la caduta del Muro di Berlino.