Corriere della Sera, 31 dicembre 2019
Intervista a Stefano Pioli
Stefano Pioli non è una brava persona. Spieghiamo: è una bravissima persona (l’umanità con cui ha trattato il post Astori a Firenze, quando è stato allenatore, padre, fratello maggiore, psicologo potrebbe esaurire l’argomento, ma c’è anche quello che dicono di lui dove ha giocato, ruolo: difensore – per esempio alla Juve —, o dove si è seduto in panchina, dal Parma al Bologna, dalla Lazio all’Inter) ma non ama quando lo definiscono così. «È come quando chiedo com’è un giocatore e mi rispondono “è un bravo ragazzo”, significa che è scarso. Brava persona dovrebbe essere normale, ma sono qui per allenare».
Tutto si può dire fuor che Zlatan Ibrahimovic sia un bravo ragazzo, è d’accordo?
«Ibra è un guerriero, un leader, un giocatore carismatico che ha grande senso della responsabilità e grande voglia di vincere. Sarà di stimolo per tutta la squadra, il suo apporto sarà fondamentale».
L’aspetto della personalità è quello dove il suo Milan ha mostrato più lacune?
«Essendo la squadra più giovane del campionato qualche limite a livello di cattiveria agonistica l’abbiamo riscontrato. Ibra è quel tipo di giocatore, di persona e di leader che potrà aiutarci a colmarlo. Ringrazio la proprietà. Gazidis, Maldini, Boban e Massara hanno lavorato tanto durante le feste».
E da un punto di vista tecnico-tattico cosa può dare?
«Sa fare tutto, sa mandare in gol i compagni, sa occupare bene l’area, saprà essere il punto di riferimento della nostra fase offensiva. L’ho sentito al telefono, è molto carico, non vede l’ora di allenarsi con noi, come io di averlo».
Cosa le ha detto al telefono?
«Gli ho dato il benvenuto, si è informato sulle condizioni della squadra, sui prossimi allenamenti, sulle prossime situazioni da affrontare. Mi ha detto: “mister stai tranquillo che sto bene”».
Dovete superare la batosta di Bergamo. Come si fa?
«Con la voglia di riscatto, perché abbiamo finito il 2019 nel peggior modo possibile. Ibra ci dà un motivo in più per essere positivi».
Un’altra etichetta che non le piace è quella di «normalizzatore», cos’ha che non va?
«È il concetto di mettere un’etichetta che non mi piace. Vengo descritto come un tipo più distaccato di quello che sono, sono molto più passionale, vivo di emozioni, di entusiasmo. Ma a volte mi sembra che si confonda l’educazione e il rispetto con la mancanza di personalità, o che per essere un bravo allenatore si debba essere arroganti».
Se guarda al suo 2019 di cosa è più soddisfatto?
«Di come sono stato accolto qui, della disponibilità dei giocatori. Di come mi sento coinvolto. Sono arrivato la settimana della sosta del campionato, c’erano pochissimi giocatori. Quando è stato il momento di debuttare contro il Lecce mi sembrava di essere qui da tanto tempo».
E invece qual è l’urgenza da affrontare nel 2020?
«Dobbiamo diventare più concreti. Siamo costretti a fare un volume di gioco troppo elevato per vincere, siamo una delle squadre che in percentuale sfrutta meno le occasioni create. È un limite grosso, abbiamo lasciato 3-4 punti per questo».
È un concetto che è finito in uno dei suoi cartelli stile Herrera? Ce li spiega meglio?
«Una delle cose più importanti è motivare, stimolare la squadra. Sin dai primi giorni della settimana cerco di buttare delle “ancore”, dei salvagente che mi aiutino a portare la motivazione al massimo nel finale della settimana».
In che senso salvagente?
«Faccio come Pollicino: se tutti i giorni butto un principio, un concetto, uno slogan, una foto, una dichiarazione di un avversario o di un mio giocatore, a fine settimana è più facile ricordare quello che mi preme ai giocatori».
A Milanello ha appeso la classifica, e poi?
Una delle cose più importanti è motivare la squadra: ogni giorno a Milanello propongo un concetto, uno slogan, una foto per far capire ciò che mi
preme
«Gli stimoli sono diversi da settimana a settimana. Può essere la sintesi della nostra ultima prestazione, una nostra caratteristica o una degli avversari. Anche una dichiarazione, che può far arrabbiare i miei. Io leggo le interviste dei grandi coach, uso spesso allenatori di altre discipline, soprattutto pallavolo e basket, trovo che abbiano una grande capacità di comunicazione. Adesso a Milano è arrivato Ettore Messina, spero di incontrarlo. In passato ho preso tanti spunti da Julio Velasco».
A proposito di allenatori, ha letto l’intervista di Sconcerti ad Allegri? È d’accordo che gli schemi contano poco, che l’allenatore è quello che «vede» la partita e che non deve fare troppi danni?
«Sono completamente d’accordo a metà con Allegri. È vero che il grande allenatore è quello che sa leggere la partita, che riesce a intervenire con i cambi o le direttive giuste, e che i giocatori di qualità sono quelli che fanno vincere, ma penso che la preparazione alla partita, a livello tecnico-tattico e motivazionale, sia altrettanto importante».
E la tecnologia? Lei tiene un tablet sul comodino...
«Per annotarmi qualcosa che mi viene in mente e rischio di dimenticare! La tecnologia è utile, penso ai videoanalisti. Ma io credo che ad aver cambiato il lavoro sia l’uso dello staff, io ho 11 persone. Così posso concentrarmi di più sulla gestione della squadra, anche quella invisibile, dai sanitari ai magazzinieri. Al giovedì ci si confronta, perché le scelte da fare sono tante, fase difensiva, fase offensiva, palle inattive».
Quindi non è più vero che l’allenatore è un uomo solo?
«È solo nelle sconfitte. Ed è anche giusto così, come capita a chi ha una responsabilità e deve convivere con il peso delle sue scelte. È chiaro che i risultati restano determinanti, ma io credo di aver acquisito l’equilibrio per poter ammettere se ho sbagliato le scelte al di là del risultato. A volte ho riconosciuto miei errori anche dopo le vittorie».
Le piacerebbe essere alla guida di un progetto lungo?
«Sì, tanto. La mia esperienza più duratura è stato a Bologna due anni e mezzo. Mi piacerebbe allenare una squadra 4-5 anni, perché c’è tanto da creare come spirito, come cultura. Non si può fare a meno dei risultati, ma credo che la difficoltà maggiore sia la valutazione degli obiettivi a inizio anno: perché se pensi che la tua squadra sia meglio di quello che è, diventa difficile centrare gli obiettivi e di conseguenza tenere l’allenatore. L’allenatore fortunato è quello che va in una società che ha un giudizio realistico degli obiettivi della squadra».
E al Milan le hanno chiesto obiettivi realistici? Si era partiti con la Champions.
«A me la società ha chiesto di fare il massimo per raggiungere gli obiettivi più alti possibili. Non mi ha chiesto per forza la Champions, ma di sfruttare i giocatori a disposizione, consapevole di avere una squadra con qualità».
Per farlo deve riuscire a valorizzare chi ha: Paquetà dove deve giocare e che gli manca?
«Nessun dubbio, è una mezz’ala. Lavora con impegno e generosità, ma deve diventare più determinante: che significa che o fa gol o deve far fare gol».
Con l’arrivo di Ibra, Piatek, ammesso che resti, non rischia di deprimersi?
«Se giochi nel Milan e arriva un giocatore di qualità devi essere stimolato e contento: più sono e più si alzano le possibilità di vincere».
Anche all’Inter è arrivato in corsa: differenze tra le due esperienze?
«L’Inter è una squadra molto più esperta, con dinamiche definite, quindi ancora più difficili da cambiare. Qui ho trovato una squadra più giovane, più aperta, direi più “malleabile”».
Cosa fa nel tempo libero?
«La mia serata tipo sarebbe cinema e poi pizza. Ho appena visto Irish Men, mi è piaciuto molto. Ora guardo le serie tv: Peaky Blinders».
Chiuda con un augurio ai tifosi del Milan e a se stesso.
«Di vivere assieme un 2020 migliore. E chissà che non nasca qui il mio ciclo lungo».
Abbiamo finito il 2019 nel peggiore dei modi, la voglia di riscatto ci permetterà di superare questo momento: Ibra è un motivo in più per essere positivi