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 2019  dicembre 31 Martedì calendario

Compione entra nell’Ue


Otto pecore, sedici capre e ventisette mucche. In tutto. Non avevano di più, secondo le stime napoleoniche del 1807, gli abitanti del paese sul lago di Lugano che diventerà poi Campione d’Italia. E quello è il timore dei duemila abitanti di quella che per anni è stata tra le cittadine italiane più invidiate: tornar «poveri» fra i ricchi.
Da domani, 1° gennaio, Campione entra ufficialmente nell’Unione europea. Direte: ma non c’era già? C’era e non c’era. Per secoli e secoli, a dispetto di tutti i ribaltoni politici o religiosi, di confini spostati e sovranità cambiate, quello che fu il feudo di un’antica famiglia longobarda che decise di donarsi nel 777 con tutti i propri possedimenti all’arcivescovo di Milano e a Sant’Ambrogio, ha goduto infatti di uno status speciale. Era infatti una enclave italiana tutta chiusa dentro il territorio del Canton Ticino. Un confine di seta. Perfino nei momenti più difficili. Con generosi accordi italo-elvetici che prevedevano gli stipendi in franchi svizzeri, targhe automobilistiche e patenti svizzere («passaggi di proprietà in mezz’ora, rinnovi dei documenti in dieci minuti: non osiamo immaginare domani...»), raccolta dei rifiuti svizzera, servizi postali svizzeri, ambulanze svizzere, sistema sanitario convenzionato con le cliniche e gli ambulatori svizzeri…
Come potevano i «nostri» italiani ufficialmente cittadini della provincia di Como, non essere contenti d’uno status simile? «In Italia mi sentivo svizzera, in Svizzera italiana», sorride Cristina Piccaluga, «Alle elementari mi emozionavo quando la maestra intonava “il Piave mormorava...” e ci parlava degli eroi campionesi morti per difendere la patria nelle due guerre mondiali. Alle medie andavo a scuola col battello a Lugano, studiavo la storia svizzera, intonavo l’inno svizzero...».
Dalla sanità ai rifiuti
E adesso? «Adesso boh...» Questa è stata per mesi e mesi la risposta ai mille interrogativi: le ambulanze (in Svizzera private e pagate per metà dal paziente e per metà dalla sanità pubblica) arriveranno ancora? L’ospedale di riferimento resterà quello di Lugano a 13 chilometri o dovrà essere per forza quello di Como che di chilometri ne dista 34 che col traffico di Chiasso e ora due dogane da passare porteranno via un’ora se non di più? E i rifiuti, chi raccoglierà e smaltirà i rifiuti? E i doganieri che pretese avranno: fare pagare l’Iva italiana o quella svizzera o tutte e due ingigantendo il problema per cui il pasticcio di oggi era nato?
E via così, ansie su ansie. Fino a quelle sui bambini e i vecchi. «La Svizzera è un paese amico ma è fuori dall’Unione europea», spiega Stefano Marzagalli, il farmacista, «Per la legge i minori di 14 anni possono uscire dall’Italia solo se hanno un documento e sono accompagnati da un genitore: come faranno i nostri ragazzi ad andare a scuola? Come faranno a giocare con gli amichetti che magari stanno dieci metri più in là dell’Arco di piazza Indipendenza che segna l’oggi invisibile confine di Stato oltre il quale c’è il paese svizzero di Bissone?» «E i vecchi?», chiede Domenico De Sceglie che da Barletta venne su a lavorare nella enclave italiana ai tempi buoni del casinò, «Cosa faremo? Porteremo i nostri vecchi a morire in Svizzera per poi tornare a Campione per i funerali nella chiesa di San Zenone e riportarli in Svizzera per la cremazione? Dovremo sdoganare le salme?» «Sdoganati come una merce qualsiasi?», si accalora Cristina Pittaluga, «Io, che sono sempre stata terrorizzata al pensiero d’essere cremata, ho detto alle mie figlie: bruciatemi e riportatemi a casa di contrabbando».
Insisti e insisti, dopo mesi d’angoscia, alcune risposte sono arrivate. In extremis: «Per la sanità, le targhe, le patenti, i rifiuti, i rifornimenti di gasolio e tante altre cose, tutto resterà per ora come prima», spiega Roberto Canesi, il presidente del Comitato Civico che, essendo il municipio commissariato (alle Comunali di otto mesi fa non si è presentata manco una lista e i certificati elettorali son finiti nei cassonetti) ha partecipato a estenuanti trattative. Sul filo di lana, ieri, s’è sbloccata anche la questione degli scolari: potranno andare a scuola a Lugano con un documento speciale. «Per ora», però. In attesa di accordi completi. Ma poi? Quel confine di seta non rischierà di diventare via via un confine vero? Magari non col filo spinato come tra Slovenia e Croazia sul fiume Dragogna (altro confine di seta, anni fa) ma...
A gonfiare le incertezze seminando qua e là il panico, però, sono i problemi economici. Era ricchissima, ancora nel 2007, l’enclave italiana. Il casinò aperto per un paio d’anni nel lontano 1917, chiuso e riaperto nel 1933, era per dimensioni la più grande casa da gioco europea. La ristrutturazione dell’archistar Mario Botta, costata oltre 120 milioni di euro ne aveva fatto una immensa e mostruosa cattedrale-bisca di nove piani. Aveva 480 addetti. Che potevano contare inoltre su una buona parte dei 102 dipendenti comunali. Uno ogni venti abitanti! «Eravamo diventati lo stipendificio della peggior politica». Non poteva reggere. E non resse. Finché la magistratura non fu costretta a sancire il fallimento. Del Comune e del Casinò. Una catastrofe paragonabile, nel piccolo mondo campionese, alla perdita di milioni e milioni di posti di lavoro.
Dopo il dissesto
Da allora molti se ne sono andati traslocando di là del confine, in Svizzera, e iscrivendosi all’Aire, l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero. Altri, che già vivevano in territorio elvetico, hanno potuto contare sull’aiuto della confederazione, su una pensione decorosa e corsi di riqualificazione professionale. Altri ancora si sono riciclati nel Casinò di Lugano, benedetto da un insperato successo. Altri aspettano di vedere come andrà a finire. Via via hanno chiuso l’unico cinema, i negozi di alimentari, l’ultimo panificio... E il reddito pro capite, un tempo invidiatissimo, è precipitato.
Era, dodici anni fa, di 59.911 euro. Uno dei più alti d’Italia. Nel 2017 è piombato a 30.021. «Da leccarsi le dita!», penseranno tanti italiani, che sanno quanto la nostra ricchezza sia calata sotto la media europea. Verissimo, se i campionesi vivessero in una realtà del Mezzogiorno e in tante altre parti d’Italia. Non per chi vive, prende casa in affitto, fa la spesa nei negozi, compra le sigarette (otto euro!) o altri prodotti costosi nel Canton Ticino. Dove il reddito pro capite era nel 2017 di 80.532 franchi svizzeri, pari a circa 75.000 euro. Molto più del doppio. Tanto è vero che la soglia della povertà è fissata da Berna in 30.018 franchi. Fate voi i conti.
Certo, sarebbe assurda la paura per i campionesi di tornare ad avere tutti insieme otto pecore, sedici capre e ventisette capre. Ci mancherebbe altro. Però per chi ha vissuto decenni di ricchezza dopo secoli di miseria, di emigrazione in giro per l’Europa, di economia basata sulla pesca dei pesci di lago e sui lavori «con martello e cazzola», lo spettro di un brusco ritorno ad anni lontani esiste. E alimenta sotto sotto sentimenti ai quali l’Italia dovrebbe stare un po’ più attenta.