la Repubblica, 31 dicembre 2019
Intervista a Mino Raiola
MONTECARLO – Alle pareti dell’ufficio di Mino Raiola in Boulevard d’Italie ci sono le locandine dei film di 007 («Il mio mito») e le maglie dei giocatori della sua corte. «Ma quale corte: è la mia famiglia». Raiola s’entusiasma a raccontare di quando, a vent’anni, esportava bulbi, studiava legge, faceva gavetta come ds all’Haarlem e lavorava nel ristorante di famiglia, «dove ho imparato a capire le persone». Trent’anni dopo è così ricco che nemmeno lui sa quanto, e spesso il pianeta calcio gli orbita attorno. Sulla maglia di Moise Kean c’è una dedica: “a Mino, che mi farà diventare una star”.
Raiola, non è che invece Ibrahimovic è una stella cadente?
«Zlatan è tornato per divertirsi e per far divertire il mondo. Non potevo permettere che il suo ultimo palcoscenico fosse Los Angeles. Questi sei mesi saranno come l’ultima tournée dei Queen, un lungo tributo: bisognava farlo a San Siro».
Chi ha convinto chi, stavolta?
«Abbiamo litigato a ogni trasferimento. Se fossi ignorante, penserei che sono sempre stato io a decidere le sue squadre, invece a 52 anni credo di aver capito che lui decide e poi mi fa credere che la decisione l’ho presa io».
La serie A sta diventando il cimitero degli elefanti?
«Il caso di Zlatan è diverso, lui viene solo per sei mesi, poi vediamo. Però vi ho portato De Ligt, che volevano tutti. Tutti. Ma lui vuole diventare il miglior difensore al mondo e allora mi fa: “Mino, io devo andare all’Harvard della difesa, al Mit dei difensori”.
Perciò abbiamo scelto la Juve: per prendere la laurea».
Non per la commissione che prende lei?
«La mia commissione dipende dallo stipendio del giocatore, e vale per tutti. Non punto la pistola alla tempia di nessuno».
Haaland non l’ha portato a studiare da noi.
«No, perché non è un difensore e perché non è De Ligt, che è capitano dell’Olanda da due anni.
Gli italiani non sanno valorizzare i propri talenti, figurati quelli degli altri. A me capita di incontrare osservatori italiani che gridano al miracolo se vedono un 2001 forte.
Allora gli dico: “ma che ve ne fate, se poi non lo fate giocare”».
Non mette tristezza la Juve che vende Kean?
«Tanta, anche a me. Non l’avrei portato in Premier se non parlasse perfettamente inglese, perché è ben raro che un ragazzo italiano si adatti all’estero: chiediamoci perché Spagna e Francia continuano a esportare giocatori e noi no. Ma se l’avessi lasciato alla Juve me l’avrebbero fatto giocare in serie C».
All’Everton però fa la riserva.
«Di lui non sono contenti, ma stracontenti. Sanno che c’è solo bisogno di tempo, perché in Premier i valori tecnici e fisici sono più alti e la serie A non ti prepara abbastanza. In questo senso Kean è come Balotelli, un talento talmente precoce che ha saltato delle fasi di crescita che però deve recuperare, perché ha delle lacune. Ho sulla scrivania una pila di richieste per lui, ma l’Everton non ha nessuna intenzione di venderlo né lui di andarsene».
Perché molti dei suoi giocatori sono arroganti? Li educa lei a esserlo?
«Sono ambiziosi, che è diverso.
Matuidi vi sembra arrogante?
Nedved, se fosse stato arrogante, non avrebbe vinto un Pallone d’oro ma tre. E il problema di Balotelli è proprio la mancanza di arroganza, difatti è contento della sua carriera ed è l’unico a esserlo. Zlatan sì, è arrogante, infatti ho dovuto togliergli l’olandese che aveva dentro e metterci un italiano. “Ci penso io”, mi disse Capello, e Ibra ha imparato a fare gol. Gli olandesi sono un popolo straordinario, geniale, ma nel calcio loro sì, diventano arroganti. Pensate a Van Gaal. Infatti mi diverto a rinfacciargli i Mondiali vinti dall’Italia».
Pogba non era arrogante quando diceva di voler diventare meglio di Pelé?
«Per lui litigai con Ferguson: Paul fu l’unico a dirgli di no, non l’ha mai digerito e se la prese con me.
Ma adesso il problema di Pogba è il Manchester: è un club fuori dalla realtà, senza un progetto sportivo.
Oggi non porterei più nessuno là, rovinerebbero anche Maradona, Pelé e Maldini. Paul ha bisogno di una squadra e di una società, una come la prima Juve».
Alla fine i suoi assistiti finiscono per somigliarle?
«Io sono un procuratore tailor made. Sono fatto su misura per i giocatori che assisto, perché diventano la mia famiglia. C’è chi mi chiama tre volte al giorno come Ibra e tre volte l’anno come Matuidi, ma lavoro solo con quelli con cui c’è affinità».
Non l’ha mai scaricata nessuno?
«Diciamo che con Lukaku la separazione è stata consensuale».
Dicono: Raiola condiziona il mercato.
«Certo che sì. Io non voglio ritrovarmi il 29 agosto a decidere cosa fare».
E le commissioni, il mercato non lo drogano?
«Il punto è: guadagno molto o guadagno troppo? Io sono d’accordo sul molto. Oggi un grande club vale 4 miliardi, è tutto commisurato. I soldi fanno parte dello show. E comunque non sono i soldi a motivarmi, io ero già milionario a vent’anni, potevo sdraiarmi su una spiaggia e vivere di rendita. È la Fifa che per nascondere i suoi problemi non fa che attaccare i procuratori».
E vuole imporre tetti alle commissioni.
«Se non serviamo, perché i club non fanno da sé? Non sono i soldi che inseguono i sogni, ma viceversa. Mio padre mi diceva sempre che vendere una cosa a qualcuno una volta è facile, ma due volte è difficile. E come mai da me ricomprano sempre tutti? Sarà che non tiro bidoni?».
Non sarà che fa comunella coi ds?
«Se il mio avvocato facesse comunella con il pm, lo scaricherei subito. Mia nonna era analfabeta, ma mi ha sempre detto che non si può stare con Dio e con il diavolo.
Io rifiuto anche gli incarichi di mediazione, tratto solo i trasferimenti dei miei che devono scegliermi per fiducia e non perché hanno paura, come invece facevano quelli che andavano alla Gea, convinti che se non lo avessero fatto sarebbero usciti dal giro. Il procuratore è come il medico di famiglia: se non ti fidi, è meglio che lo cambi. E poi non assisto allenatori: voglio avere la libertà di mandarli affanculo».
Coi colleghi come va?
«Con quelli che meritano di essere definiti tali, e non sono molti, ho un rapporto normale. Certo, ho i miei metodi. Non cerco di avere il controllo sui club e mantengo la mia dimensione: qui siamo in quattro, siamo una bottega artigianale e tale vogliamo rimanere. Con i miei ragazzi non ho bisogno di contratti, ma di feeling. E se vogliono, gli gestisco la vita intera, anche perché sanno che i loro segreti verranno con me nella tomba».
Raiola c’è sempre?
«Una volta uno mi ha telefonato alle due di notte: “Mino, mi sta bruciando casa”. Gli ho detto: “grazie di aver pensato a me, ma forse è meglio se chiami i pompieri, e intanto spostati di lì”. E lui: “grazie Mino, buon consiglio”.
Tra loro i giocatori si parlano, io funziono con il passaparola. Difatti non vado a cercare nessuno, sono loro che vengono da me».
Lei va alle trattative in pantaloncini corti e maglietta: fa parte del personaggio?
«Mia mamma mi diceva: “Mino, conciati a modo”. Ma io con i vestiti non sto bene, sono a disagio.
All’inizio mi guardavano come uno scemo, però poi ho capito che era anche meglio: se ti presenti vestito male ti sottovalutano, e in una trattativa è un gran vantaggio.
L’unico che ha avuto qualcosa da dire è stato Braida, ma lui è un damerino. O gli avvocati della Fifa, a cui ho spiegato che la decenza non si vede dal vestito. E loro lo dimostrano».
Perché ce l’ha così tanto con la
Fifa?
«È monopolista. È un centro di potere che non pensa al bene del calcio ma solo ai suoi interessi. Ma fa danni anche il Financial Fair Play».
Perché?
«In Italia abbiamo ormai un mercato a parte che finisce il 30 giugno, quando i club devono fare acrobazie strane per mettersi in regola con i conti: ma che senso ha? E che senso ha vietare a un club di fare acquisti? È una limitazione della libertà individuale: perché un mio calciatore non può andare al Chelsea, rimettendoci un sacco di soldi? Capitasse a un mio assistito farei causa, scatenerei un effetto mondiale».
Non parla per interesse? A voi fa comodo che girino tanti soldi.
«Con l’affare Pogba ho cambiato il mercato, i prezzi sono impazziti.
Ma non ho sentito un solo club lamentarsene».
E di lei, si lamentano?
«Se parlano troppo bene di me, vuol dire che qualcosa ho sbagliato».
Certi tifosi la odiano, dicono che lei non ha rispetto per le bandiere, ma solo per gli affari.
«Dovrebbero chiedermi scusa per Donnarumma: Mino, avevi ragione tu. Volevo portarlo via perché non mi fidavo di quel Milan, come non mi fidavo dell’Inter di Thohir, e ditemi se non avevo ragione. Sarò poco romantico e politicamente scorretto, ma il mio scopo è massimizzare la carriera dei miei giocatori. Mi chiedo sempre: “cosa farei se fosse mio figlio?” I soldi sono solo l’ultimo step».
Anche per lei?
«A me non interessano».