la Repubblica, 31 dicembre 2019
Kafka a Merano
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Quando si sveglia negli anni Venti, Franz Kafka è a Merano. Alloggia nella piccola pensione Ottoburg. La raggiungo in un pomeriggio di questo dicembre; è su via Maia, Maiastraße, una stradina silenziosa fuori dal centro, una specie di corridoio d’ombra – i mercatini natalizi, la folla, tutto da qui è remotissimo. Il castelletto bianco disegnato contro il cielo alto e sereno, le biciclette ferme contro un muro: potremmo essere un secolo indietro, se non fosse per la targa che dice «Franz Kafka visse qui nell’anno 1920». Pare che per il centenario del soggiorno meranese siano previste diverse celebrazioni: nel frattempo, facendomi accompagnare da un amico bolzanino, mi accontento di fissare l’unica finestra illuminata. Il signor Kafka che scrive e dormicchia. Che passa qualche ora fuori, su una sedia a sdraio e scruta – guarda caso – un piccolo insetto caduto sul dorso: «Era disperato, non riusciva a raddrizzarsi». Vorrebbe aiutarlo, ma non riesce; si sente come inchiodato alle parole che sta leggendo. Non sono versi di poesia, non sono pagine di romanzo. È una lettera di Milena Jesenská. Siamo, d’altra parte, nel tempo delle lettere. Kafka le odiava: era convinto che passasse di lì tutta l’infelicità della sua vita. «Gli uomini non mi hanno quasi mai ingannato, le lettere sempre» scrive risentito a Milena, benché non possa evitare, quando gli arrivano, di afferrarle rapido, come un passero afferra le briciole.
«Come si è mai potuti arrivare all’idea che gli uomini possono frequentarsi per lettera!» esclama addolorato, e non si dà pace: è un rapporto con gli spettri, sostiene, non solo lo spettro del destinatario, ma anche con il proprio, «quello che si sviluppa sotto le nostre mani nella lettera che stiamo scrivendo, o addirittura in una sequela di lettere, dove una rafforza l’altra e può richiamarsi ad essa come a un testimone». Do un’occhiata alle notifiche Whatsapp, dunque ai miei spettri, poi torno alle Lettere a Milena (nell’ultima, bellissima edizione Giuntina) e mi imbatto in questa frase definitiva: «I baci scritti non arrivano a destinazione». Kafka tira in ballo la ferrovia, l’automobile, l’aeroplano, la posta, il telegrafo, il telefono, la telegrafia senza fili. L’umanità combatte così, cerca di cancellare il «rapporto spettrale» fra gli individui e raggiungerne uno naturale, «la pace delle anime», ma può davvero riuscire nell’impresa?
Se si svegliasse in questi nuovi anni Venti, saprebbe di essere diventato il protagonista di un meraviglioso videogame: un’avventura grafica ispirata ai suoi libri e sviluppata un paio di anni fa da Denis Galanin, The Franz Kafka Videogame. Saprebbe anche che un suo ammiratore, Jay Kreps, ha pensato di usare il suo nome per un sistema informatico di scrittura dati che trova applicazione, per esempio, nella gestione di corrispondenza passeggeri e driver di Uber, fornisce analisi e manutenzione predittiva per grandi fornitori di energia come British Gas ed esegue diversi servizi in tempo reale su LinkedIn. «Kafka memorizza messaggi di valore-chiave»: trovo frasi così, nelle descrizioni del sistema. «Questa architettura consente a Kafka di generare enormi flussi di messaggi in modo da tollerare i guasti». Tollerare i guasti. Non aveva forse scritto Milena, nel necrologio del suo amico-amante, che era «troppo chiaroveggente e troppo saggio per poter vivere», per poter tollerare il mondo storto che aveva visto così chiaramente? Si sveglia negli anni Venti in un «bagno di antisemitismo», non sa come afferrare con parole, occhi, mani e con il povero cuore la felicità che gli sfugge. Selva oscura, vita nuova. Sogna un’esistenza diversa con Milena, o di trasferirsi in Palestina e ricominciare da zero, come giardiniere o rilegatore di libri. Il futuro! Bisogna – dice – lasciarlo dormire come merita. Poi, però, c’è il caso che si svegli. E cent’anni dopo Kafka, a Merano passa un autobus senza nessuno alla guida. Una navetta priva di conducente, controllata a distanza attraverso un joypad. «Margine di errore di appena un centimetro» ha spiegato a Repubblica qualche settimana fa l’assessore all’urbanistica. Il cantiere del futuro è a pochi chilometri da qui, al NOI Techpark di Bolzano, il grande polo tecnologico – 190mila metri cubi su dodici ettari – che ha sostituito il vecchio stabilimento per la produzione di alluminio e che presto realizzerà un impianto di produzione e stoccaggio di energia a idrogeno, che riduce le emissioni di anidride carbonica producendo e consumando energia a impatto zero. Patrick Ohnewein, “head of unit” al NOI Tech Park, mi racconta come vede gli anni Venti del XXI secolo da lì: «Le sfide maggiori sono il passaggio dall’industria 4.0 al lavoro 4.0, la produzione di energia a partire dal compost, la smart mobility». Si lavora sulla possibilità di migliorare la mobilità pubblica nei paesi alpini con shuttle a guida autonoma “on demand”. Tra dieci anni, chiedo a Ohnewein, ci arriveremo? «Sul fronte tecnologico siamo molto più avanti che su quello legislativo. E siamo molto concentrati sull’interazione uomo-macchina (e non macchina-macchina!), con lo sviluppo di robot collaborativi». È buio, a Merano; e Kafka non sa che qualche anno fa un robot collaborativo, su un palcoscenico giapponese, ha preso parte come attore a un adattamento teatrale del suo racconto più noto, La metamorfosi. L’androide Repliee S1 nel ruolo di Gregor Samsa. Sempre di metamorfosi si tratta. Una volta per tutte Hannah Arendt ha chiarito che Kafka è solo in parte un nostro contemporaneo: la distanza che avvertiamo risulta «dal punto di vista privilegiato» da cui scrive. Quello di un tempo che corre in avanti. Kafka si sente a casa in un mondo che non è ancora. La sua arte esprime un mondo a venire che è anche il nostro futuro, sostiene Arendt: «Sempre che ci resti un futuro».