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 2019  dicembre 31 Martedì calendario

Intervista a Nathan Englander. Parla di una New York al tempo del razzismo

«L’antisemitismo in America è sempre esistito. E mia madre, convinta che ci aspettava un nuovo Olocausto, ce lo ricordava continuamente. Ci ha cresciuti nella paura: anche se vivevamo a Long Island, New York. Sotto le nostre finestre i bambini sfrecciavano in bici gridando Heil Hitler. Disegnavano svastiche sulla nostra porta. Da ragazzo subii umiliazioni brucianti. Facevo di continuo a botte per reagire agli insulti.
Oggi non è più così. Vorrei dire che non c’è epoca migliore per essere ebrei in America.
Purtroppo il clima politico ci sta riportando indietro di decenni». Nathan Englander è furibondo. Lo scrittore newyorchese, che ha raccontato al grande pubblico l’esperienza ebraico-americana in libri come “Il ministero dei casi speciali”, “Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank”, “Una cena al centro della Terra”, ha appena lasciato Brooklyn per trasferirsi a Toronto, in Canada. Ma gli episodi antisemiti accaduti nella sua città lo sconvolgono: «Prima di partire, mia figlia mi ha mostrato le svastiche disegnate sui muri della sua scuola. Un’amica proprio ieri mi ha mandato la foto di scritte antiebraiche nei bagni del suo ufficio. C’è un antisemitismo violento: e uno più strisciante, ma altrettanto cattivo».
Tredici attacchi antisemiti in un mese in una città simbolo di convivenza come New York.
Che succede?
«C’è una brutta atmosfera in tutta l’America. La normalizzazione dell’odio fa proseliti ovunque. Nessuno riuscirà a cambiare New York: città aperta, accogliente, multiculturale. La convivenza è parte della sua identità. Ma non è mai stata una città facile. Cose terribili accadevano anche prima e non solo agli ebrei. Lì ogni minoranza ha il suo carico di sofferenza. Immigrati, neri, latini, gay: in una città che tollera tutto c’è sempre chi non accetta tanta apertura. Oggi però chi è intollerante gode di maggior impunità».
Da parte di chi?
«Inutile girarci intorno. Donald Trump ha dato il via libera a ogni forma di suprematismo violento. Nel 2017, quando a Charlottesville un uomo travolse in auto una ragazza che protestava pacificamente contro la marcia dei neonazisti nella sua città, affermò che “la colpa era di entrambe le parti”. Rifiutando di condannare chiaramente quella violenza così specifica, ha riconosciuto di fatto l’impunità di tutti i violenti venuti dopo.
Anche ora, dopo i quattro ebrei uccisi in un supermarket a Jersey City e i cinque accoltellati di Monsey: a parte un paio di tweet non ha fatto niente per lenire il dolore di quelle comunità e dell’America intera».
Questa volta a colpire è stato un afroamericano. Quasi certamente con problemi mentali.
«Chiunque porti a segno attacchi violenti verso persone inermi ha problemi mentali. Ok, era un nero. Ma la radice dell’odio è la stessa. Non puoi normalizzare razzismo, antisemitismo, xenofobia senza pensare al costo sociale. Il presidente degli Stati Uniti dovrebbe prendersi la responsabilità di dire basta.
Troppo facile prendersi il merito se l’economia va bene. E poi dire è colpa degli altri se c’è violenza nel Paese. Così come è ipocrita preoccuparsi delle sigarette elettroniche che fanno male ai ragazzi, dimenticando i tanti, troppi morti ammazzati nelle stragi avvenute nelle scuole. Per fortuna l’assalitore di Monsey aveva un coltello e non una pistola. Altrimenti staremmo piangendo venti morti invece di cinque feriti. Come accadde due anni fa a Pittsburgh. La peggior strage di ebrei mai avvenuta negli Usa: avvenuta non a caso con Trump alla presidenza».
Eppure nemmeno quel killer era un sostenitore di Trump, anzi, lo accusava di essere amico degli ebrei…
«Però era motivato dalla folle idea che il suo Paese stava per essere invaso da stranieri. Lo aveva letto su social suprematisti ispirati dalle baggianate di Trump sulle carovane di latinos pronte a invadere l’America. C’è molta confusione su ciò che fa il presidente: razzista alleato con suprematisti e neonazi in patria.
Ma amico di Israele quando si tratta di politica estera. Ecco, personalmente trovo molto grave la legge per combattere l’antisemitismo firmata l’11 dicembre secondo cui gli ebrei sono una nazione. Io sono americano ed ebreo. Quella legge genera solo confusione intollerabile».
Lei ha vissuto a lungo in Israele: dove, lo ha raccontato più volte, si convive talmente con la paura da accettarla come un aspetto normale della vita.
Sta accadendo anche qui?
«Purtroppo si, in America la paura fa sempre più parte della vita quotidiana. Ma non è solo la violenza a essere normalizzata. È l’irrazionalità. Penso al negazionismo dei cambiamenti climatici, ai no-vax che rifiutano di far vaccinare i figli. Se continuiamo ad accettare tutto, l’intera società finirà gambe all’aria. La responsabilità è della politica, certo. Ma pure di chi vota certa gente. È ora di dire basta: e dirlo tutti insieme».