Robinson, 29 dicembre 2019
Warhol non passa mai di moda
«Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più. Penso che tutti dovrebbero essere macchine (…) Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina». Così afferma Andy Warhol in un’intervista su Art News del novembre 1963. Lo conferma la mostra Andy Warhol, curata da Matteo Bellenghi nella Basilica della Pietrasanta – Lapis Museum di Napoli, fino al 23 febbraio. Duecento opere, tra icone e ritratti, illustrano la poetica del grande artista americano tra ritratti a Marilyn Monroe, Liz Taylor, Mao Tse Tung, l’illustrazione di noti marchi commerciali fino ad arrivare alla sezione dedicata alla musica con le amicizie con Mick Jagger e il gruppo The Velvet Underground.
Con la sua presenza fredda e distaccata cancella ogni traccia di profondità e i suoi quadri, i suoi ritratti, diventano la celebrazione della superficie per la superficie. Lo strumento da lui usato è uno stile che non rifiuta il sistema meccanico di riproduzione dell’immagine, perlomeno dell’ottica e dello spirito che lo determina, ma anzi accoglie il procedimento e la neutralità di fondo che lo sorreggono. Perché questo avvenga è necessario eliminare ogni discriminazione per quanto riguarda l’ambito dove l’immagine nasce, cresce e si sviluppa. Warhol trasporta nell’arte l’idea del multiplo, dell’oggetto fatto in serie: l’individuo ripetuto in uomo massa, in uomo moltiplicato portato dal sistema in una condizione di esistenza stereotipata. Al prodotto unico subentra l’opera ripetuta, la cui reiterazione non comporta più una angoscia esistenziale ma il raggiungimento di uno stato di ostentata indifferenza, che è lo stesso attraverso cui Warhol guarda il mondo e che costituisce la premessa di quel consumo cui la civiltà americana e l’artista stesso non intendono sfuggire.
L’occhio cinico di Warhol ci restituisce la condizione oggettiva del ceto medio americano accettata così com’è e per quello che è, poiché i modelli adoperati non sono fuori di quella realtà ma dentro: le facce inespressive dell’uomo- folla gettato nella sua solitudine quotidiana, separato dagli altri uomini, incidenti d’auto, nature morte di fiori psichedelici riprodotte con gelida allegria attraverso il procedimento meccanico della serigrafia. Sono tutte immagini recuperate dallo spazio cittadino: una megalopoli sconfinata e proliferante, portato di una economia in espansione anche oltre i confini degli Stati Uniti. La metropoli è l’alveo naturale dell’American Dream, inteso come sogno continuo di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce. La città è un grande happening, un evento incontrollato in cui le immagini si associano tra loro, si scompongono, si sovrappongono e scompaiono all’interno di un paesaggio artificiale vissuto come l’unica natura possibile dell’uomo moderno.
La produzione, sostenuta dal gioco serrato della pubblicità, crea per soddisfare i propri ritmi, una sorta di fame, un desiderio di oggetti e consumi. Ma la situazione presto si inverte: ora è l’oggetto a inseguire il soggetto. La città apre la sua caccia sadica all’uomo, in quanto ormai esiste una inversione di ruoli e una nuova gerarchia di posizioni: la città è il fine, l’uomo il mezzo. Produzione e consumo, opulenza e obsolescenza riguardano anche le zone permeabili della soggettività, le cifre emotive dell’individualità, mosse in quelle che Alexander Mitscherlich chiama” i percorsi d’angoscia” del feticcio urbano. La città non è più, infatti, lo spazio delle relazioni interpersonali ma il luogo dello scambio, di un puro passaggio di merci. La merce, infatti, è la grande madre che accudisce il sonno, i sogni e gli incubi dell’uomo americano, che lo assiste in tutti i suoi bisogni, fino al punto di incentivare e creare nuovi consumi. Il lavoro è l’unico tramite che l’uomo può stabilire con la realtà urbana e il suo sistema di accumulo e distribuzione di funzioni. Warhol fa propria più e meglio di altri artisti questa mentalità, rafforzata dalla coscienza puritana che solo ciò che è ben fatto trova affermazione e dunque realtà. Egli assume fino in fondo i margini di divisione del lavoro, delegando al potere politico ogni problema riguardante l’ambito sociale, secondo un ottimismo diffuso dalla nuova frontiera kennediana.
Con la rappresentazione della Pop Art, infatti, l’arte americana perde la disperazione dell’Action Painting e i residui esistenziali del New Dada. Ma smarrisce anche quel sentimento dell’arte come possibilità di pensare ancora un riscatto, che aveva animato, invece, la generazione precedente (da Pollock, de Kooning e Kline fino a Rauschenberg, dall’Urlo di Ginsberg al Cut- up di Burroughs e ancora Reinhard, Rothko, Newman). Il ready– made di Duchamp è, insieme alla tecnica del surrealismo, la matrice linguistica della Pop Art. Ma c’è anche la pittura dell’American Scene di stampo realistico, portata in Hopper a celebrare puritanamente il senso della città, la trasformazione della natura in storia. Di questa tradizione figurativa naturalmente Warhol non riprende l’etica di fondo, bensì soltanto l’ottica descrittiva e oggettiva che assisteva questo tipo di figurazione, d’altronde già presente nelle descrizioni letterarie. Lo stesso artista riconosce il proprio legame con l’anima calvinista dell’America quando, nel 1977, confida a Nancy Blake su Art Press: «Io sono fatto alla vecchia maniera. È veramente il mio problema, sa? L’etica protestante. Se potessi fare a meno dei prodotti sarebbe l’ideale. Ma oggi, per semplificare, ci vogliono un sacco di soldi». Altro precedente importante è poi la ricerca di Jasper Johns sugli stereotipi visivi della vita americana, che negli anni Cinquanta spostava l’opera sul versante dell’impersonalità e della tautologia visiva, nonostante la pittura avesse ancora il sopravvento. Warhol procede oltre, sposta completamente il tiro nella direzione dell’immagine oggettiva, stereotipata e meccanica.
Palcoscenico per antonomasia della Pop Art è New York, già pronta all’inizio degli anni Sessanta a trasformare la “società di massa” in “società dello spettacolo”. Qui le immagini accompagnano il viaggio diurno e notturno dell’uomo, irregimentato nell’ingranaggio produttivo di una macchina che funziona senza sosta, secondo ruoli già assegnati che lo rendono partecipe e soggetto passivo del grande spettacolo della merce. Dato il meccanismo del sistema produttivo, le immagini della città vengono accettate nel loro improvviso narrativo come reali.
Insomma, Warhol è il Raffaello della società di massa americana che ha dato classicità al linguaggio della Pop Art, dimostrando che la superficie accoglie il massimo della profondità.