Robinson, 29 dicembre 2019
Biografia di Grazia Deledda
!NN1!NN2!NN3
Bisognerebbe dire grazie a Google. Se non fosse stato per il suo doodle, il disegno cliccabile che il 10 dicembre di due anni fa celebrava il novantesimo anniversario della consegna del Nobel a Grazia Deledda, in Italia praticamente nessuno si sarebbe ricordato dell’unica penna che nella storia della letteratura italiana ha ricevuto quell’onore per meriti narrativi. Carducci, Quasimodo e Montale lo presero infatti per la poesia e Fo e Pirandello per il loro lavoro teatrale, motivazione che a quest’ultimo causò un tale malumore da indurlo – primo caso nella storia del Nobel – a ritirare il premio senza pronunciare alcun discorso. Deledda invece il suo discorso lo fece. Fu breve, di una sobrietà erroneamente scambiata per timidezza, e coronava un percorso di vita determinato a dispetto di tutto e tutti. Né famiglia, né amici, né mentori vi furono ringraziati: solo Dio e il marito Palmiro Madesani, complice nella vita e nel lavoro, che compose con lei quella che oggi si chiamerebbe” power couple”, ma che allora gli valse più che altro il soprannome al vetriolo di” Grazio Deleddo”, coniatogli dallo stesso Pirandello, che non riusciva a spiegarsi quella felicità serena e produttiva. Deledda, che non era un’ingrata, aveva piena ragione a non ringraziare nessuno, perché la sua vita di scrittrice era stata protetta solo dalla sua indomita volontà di raccontare e dal favore del pubblico, che non le è mai mancato. La critica e i colleghi la sentirono invece lontana sin dal primo momento, con atteggiamenti che spaziavano dalla più schietta misoginia a uno snobismo più intellettuale, che ne disprezzava i temi e soprattutto la lingua, un italiano inizialmente poco cesellato, ma non strano in un’autodidatta sarda di fine Ottocento che era diventata pienamente bilingue solo da adulta. Di lei oggi rimangono in mano al grande pubblico i molti romanzi, i racconti e qualche brutta foto sulle antologie, che rimanda l’immagine ingenerosa di una donna non più giovane, modesta nella posa, riflessiva e priva di carisma. Deledda era tutt’altro che questo. Focosa sin da ragazzina, si innamorò ferocemente di un uomo che sembrava avere tutte le caratteristiche necessarie a farle da compagno: bello, colto, giornalista e in condizioni di portarla via da una Nuoro e da una famiglia nelle cui strettoie si sentiva soffocare. L’uomo non era quello giusto e il suo trasporto non fu corrisposto ( anche con una certa malagrazia). Quel dolore Grazia lo portò con sé in ogni pagina in cui scrisse d’amore, regalando ai suoi lettori e alle sue lettrici storie di una profondità drammatica che non aveva eguali nella letteratura italiana sedotta dal verismo, ma parlavano invece la stessa lingua di Emily Brontë in Cime Tempestose. Delusa d’amore, Deledda sapeva che il matrimonio restava comunque uno strumento di fuga, forse l’unico per una donna dei suoi anni senza autonomia economica, e per questo fu capace di intrattenere corrispondenze sentimentali anche con tre spasimanti per volta, in attesa che si palesasse quello che si sarebbe rivelato adatto a sposare non solo lei, ma anche la sua ambizione. Sapeva di chiedere molto e anche per questo l’incontro con Palmiro Madesani ha qualcosa di sbalorditivo per la sua modernità. Il funzionario ministeriale che la porterà da moglie a Roma nell’anno di inizio del secolo nuovo non solo riconoscerà da subito il suo genio, ma vi si metterà a servizio, al punto da licenziarsi dal suo posto di lavoro per farle da agente, studiando persino le lingue straniere per parlare con gli editori esteri. L’invidia di Pirandello per quel sodalizio efficace e così poco tradizionale indusse lo scrittore siciliano a scrivere quello che resta senza dubbio il suo libro più brutto, intitolato significativamente Suo marito, che doveva rovinare la reputazione dei Madesani e invece per poco non compromise la sua. Deledda a queste e altre provocazioni non reagì se non scrivendo i suoi libri e oggi possiamo solo immaginare la fatica che deve esserle costato camminare con la testa alta tra il più meritato dei successi e il più illogico dei disprezzi. Arbasino scrisse che la parabola dell’intellettuale parte dalla categoria di brillante promessa, passa per quella di “solito stronzo” e a volte finisce con quella di” venerato maestro”, ma Deledda a essere venerata maestra non è giunta mai, né col Nobel né morta, dimenticata in fretta da una critica che l’aveva silenziata anche in vita. Poche le biografie che le hanno fatto giustizia ( splendide quelle di Maria Giacobbe, di Angela Guiso e Rossana Dedola, oltre ai saggi di Elisabetta Rasy e di Sandra Petrignani) e ancora meno i gesti istituzionali che potevano rivalutarne la memoria. A fatica la si trova oggi nelle antologie, quasi che quel Nobel fosse un imbarazzante errore degli svedesi che avevano forse sbagliato isola. Rileggerla oggi sbalordisce per la forza e la modernità dei suoi temi. Una volta al festival di Mantova proposi al pubblico allibito (e scandalizzato) una sinossi squilibrata e dissacratoria tra Canne al vento e il successo di quell’anno, il planetario Twilight. I vampiri dalla coda d’acciaio di Deledda splendevano molto più tenebrosi di quelli di Meyer e i suoi amori scandalosamente endogamici trasgredivano le convenzioni di tante adolescenti svezzate a youporn. Molti giovanissimi andarono via da quell’incontro con Canne al vento in mano, attratti dalla forza di una storia dove tutti i sistemi di potere del tempo – quello di classe servo/ padrone e quello familiare padre/ figlia – venivano spazzati via in un colpo solo da una che li aveva presi discretamente a calci anche nella sua vita.Se Deledda resta un’incompresa è per mancanza di categorie, forzata nelle caselle ora del verismo ora del decadentismo, pur essendo forse l’unica scrittura gotica che l’Italia abbia prodotto in quegli anni. È però un’incomprensione tutta italiana. Sarà forse perché italiana, lingua o non lingua, in fondo non lo è mai diventata.