Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  dicembre 29 Domenica calendario

Intervista a Catherine Camus, la figlia di Albert Camus

Nel piccolo cimitero all’ingresso del paese ci sono tante lapidi con cognomi italiani, testimonianza della prima immigrazione di braccianti che da fine Ottocento venivano a cercare fortuna in Provenza. La tomba di Albert Camus è in fondo, accanto a quella della moglie Francine. Una sepoltura essenziale di pietra grezza, con un grande oleandro al centro e qualche messaggio di devoti, l’ultimo della cantante Patti Smith venuta a rendere omaggio al grande intellettuale francese. «L’abbiamo accolta a casa, si è chiusa nell’ufficio per sfogliare il manoscritto del Primo uomo. Quando è uscita, piangeva» racconta Catherine Camus, 74 anni. Donna minuta, schietta, dal moto incessante come se fosse eternamente in fuga, ha una punta di malinconia nello sguardo. Da quasi trent’anni è la custode dell’opera del padre, insieme all’inseparabile assistente Alexandre.
In cima al villaggio, non si può sbagliare indirizzo. Catherine ci riceve in rue Albert Camus nell’antica seteria di Lourmarin che il padre nato in un famiglia algerina poverissima aveva comprato nel 1957 con i soldi del premio Nobel. Dalla grande dimora color crema con le persiane verdi pastello si apre la vista sulle colline del Luberon. È da questa casa che l’intellettuale era partito per Parigi insieme all’editore Michel Gallimard il 4 gennaio 1960, a bordo di un’auto che si schianterà poco dopo. Circondata da cani e gatti randagi, seduta in una piccola stanza in cui si accumulano libri, fogli, lettere, Catherine parla del suo amore per l’Italia, ereditato dal padre, mostrando il volume appena pubblicato da Gallimard che raccoglie la corrispondenza con l’intellettuale Nicola Chiaromonte. «Ci sono pagine bellissime sul fascismo e sulla politica».
Tra qualche giorno si celebra il sessantesimo anniversario della morte di suo padre. Significa qualcosa per lei?
«No, le commemorazioni mi annoiano. Fino a luglio non ci pensavo neanche. Poi sono incominciate le telefonate, gli inviti, le proposte di interviste. Voi giornalisti adorate gli anniversari. Cosa vorreste che vi dica? Mio padre, per me, è morto ogni giorno».
Vive ancora con questo pensiero fisso?
«Avrei dovuto elaborare il lutto? Che espressione ridicola. Io vivo con il lutto tutti i giorni, per forza di cose».
Si guarda intorno come a cercare qualcuno. La grande casa è silenziosa, uno dei cani dorme sul divano.
Le manca molto?
«Non è una cosa triste. Anzi, ridiamo molto insieme.
Qualche giorno fa ho incrociato uno storico sartriano che sembrava uscito da un congelatore degli anni Sessanta. Ho pensato, o forse è papà che mi ha suggerito: guarda che verruca purulenta».
Catherine scoppia in una fragorosa risata.
«Comunque non mi aspetto grandi celebrazioni».
Perché?
«Le istituzioni francesi hanno già ignorato il centenario della nascita di mio padre. Ricordo che allora mi avevano chiamato da Gallimard, tutti agitati in vista della scadenza. E io risposi: sprecate tempo, tanto non si farà nulla. Avevo ragione».
E qual è la spiegazione secondo lei?
«Mio padre non amava il potere, ancora oggi nessuno può impadronirsi della sua opera. Ne sono fiera. È la dimostrazione che anche da morto continua a dare fastidio». Ride ancora di gusto.
"Lo straniero” è ancora oggi uno dei libri francesi più venduti nel mondo.
«Posso sbagliare ma penso sia dovuto al fatto che Camus parla ad altezza d’uomo. Non aveva preconcetti né ideologie. Diceva: se pensassi che la destra avesse ragione, sarei di destra. Era un macronista della prima ora».
Lei sostiene Macron?
«Guardando gli altri leader in circolazione – tra Salvini, Trump e Johnson – penso che siamo fortunati ad avere Macron. È colto, ha citato qualche volta mio padre, e non a sproposito. Rispetto ad altri politici, ha fatto tante altre cose nella vita».
Il presidente è molto criticato, prima dal movimento dei gilet gialli e ora dalla protesta dei sindacati.
«Purtroppo è stato presentato dalla stampa come il presidente dei ricchi, quindi temo sia spacciato. I francesi sono corrosi dall’invidia, è terrificante. Mia nonna paterna era poverissima, faceva le pulizie. Se fosse nata oggi probabilmente avrebbe avuto una vita ancora più dura e infelice».
Dieci anni fa l’ex presidente Sarkozy cercò di trasferire le spoglie di suo padre al Panthéon.
«L’ha pagato caro, e anche io».
In che senso?
«Sarkozy è stato molto criticato e io ho perso diversi amici di sinistra. Non sopportavano l’idea che fossi andata a pranzo con Sarkozy per parlarne».
Alla fine aveva accettato.
«Ero combattuta, ci ho pensato a lungo. Ho ricevuto centinaia di lettere da francesi nati poveri come mio padre. Sono loro che mi hanno convinto. Avere Camus al Panthéon, per loro, sarebbe stato un segno di speranza. Mia nonna avrebbe detto la stessa cosa».
Il trasferimento al Panthéon non si è fatto perché suo fratello era contrario?
«Jean non voleva. Mi disse scherzando: per una volta ti ho fatto un favore. I nostri rapporti non sono facili. Ci sono periodi in cui mi detesta, altri nei quali vuole fare la pace. Mio fratello ha sempre sofferto di turbe. Ci siamo riparlati di recente, dopo sette anni».
Siete gemelli. Camus vi chiamava affettuosamente “Peste e Colera”. Chi era la Peste?
«La Peste ero io, Jean il Colera. Per noi papà era “Le Rassurant”, il rassicurante. Lo vedevamo come qualcuno di solido, giusto. Preferivo gli schiaffi di mia madre ai rimproveri di mio padre. Con lui era impossibile mentire. Ci ha educati all’onestà, al rispetto degli altri. È quello che mi ha salvata dopo la sua scomparsa».
Come ha saputo dell’incidente?
«Nostra madre ci ha portato a casa di amici senza dirci nulla. L’abbiamo scoperto sentendo i discorsi degli altri. È stato un terremoto. Mi ricordo solo l’immensa paura».
Ha letto il libro di Giovanni Catelli che ipotizza un complotto del Kgb per uccidere Camus?
«Non l’ho letto. Rifiuto di farmi domande sull’incidente. È già abbastanza dura così. La spiegazione più logica è un problema meccanico con la Facel Vega (l’auto su cui viaggiava Camus, ndr). È una macchina che ha provocato altri incidenti. E comunque c’è anche chi è convinto sia stato un complotto dell’Oas (l’organizzazione militare clandestina contro l’indipendenza dell’Algeria, ndr). Si è parlato anche della Cia. Tra l’altro nelle schedature della Cia e del Kgb su mio padre appare la stessa definizione: dicono fosse un trotzkista. Papà è riuscito a metterli d’accordo».
È tornata in Algeria sulle tracce della sua famiglia?
«Non ho nessuna voglia. Sarkozy mi aveva proposto di partecipare a una visita di Stato. Gli ho risposto che non avrei mai stretto la mano a Bouteflika (l’ex presidente algerino, ndr) che è l’assassino del suo popolo. Io mi sento meglio con gli arabi che con i francesi, ma ci sono alcune cose su cui non sono d’accordo. Ad esempio il fatto che si venga accusati di razzismo non appena si critica una certa interpretazione dell’Islam».
Perché ha aspettato fino al 1994 per pubblicare il manoscritto ritrovato nell’automobile di Camus, “Il primo uomo”?
«Mi sono consultata prima di farlo. Alla fine la decisione è stata accelerata dal fatto che esistevano delle copie pirata. Non volevo che il libro uscisse con errori o modifiche».
È un’opera che parla della vostra famiglia. Non si è sentita parte in causa?
«Se mi facessi questo tipo di domande non avrei pubblicato la corrispondenza con María Casarès».
Fa un balzo dalla sedia, si illumina parlando dell’attrice spagnola con cui Camus ha avuto una lunga passione.
Era importante far conoscere le lettere tra Camus e Casarès?
«C’è stato un libro che parlava della relazione tra mio padre e María. Mi sembrava meglio che fossero i due diretti interessati a raccontare la loro storia. Così è stato».
Da piccola sapeva che suo padre aveva un’amante?
«Per me era la normalità. Quando andavo a casa di amiche e vedevo che i genitori dormivano nello stesso letto mi sembrava strano. Una volta, non so con quale faccia tosta, sono andata da mia madre e le ho chiesto: com’è María? Mi ha risposto: è come te. No ho mai capito se per lei fosse un bene o un male, probabilmente entrambe le cose. Anni dopo mi sono detta che era un complimento».
Ha conosciuto Casarès?
«Dopo la morte di mia madre, nel 1980, ho lasciato un bigliettino in un teatro di Nizza dove María faceva uno spettacolo. Mi ha richiamato poco dopo, invitandomi nel suo albergo. Sono arrivata alle due del pomeriggio e abbiamo passato cinque ore sdraiate sul letto a mangiare cioccolata. Poi ci siamo riviste altre volte. Era una donna raggiante, così vitale».
Sua madre Francine soffriva di queste infedeltà?
«Era una donna fragile, sempre depressa, probabilmente le infedeltà non aiutavano. Ma mio padre non ha mai mentito, le aveva detto che era incapace di essere sposato. Al tempo stesso, non l’avrebbe mai lasciata per rispetto del giuramento fatto. Ho incominciato a mettere ordine nella loro corrispondenza, è una sorta di psicoanalisi forzata. Un giorno forse pubblicherò le loro lettere perché si capisce quanto abbiano sofferto entrambi, in particolare durante la guerra».
Qual è il libro di Camus che preferisce?
«La caduta e, anche se non è un opera letteraria, il discorso pronunciato a Stoccolma per il Nobel, quando spiega per esempio: “Sono ricco dei miei dubbi”. Oggi tutti hanno opinioni nette, definitive. Ma non sono giudizi, è una posa».
Si alza di nuovo, vuole portare fuori i cani che continuano a dormire.
Le capita di chiedersi cosa direbbe suo padre oggi, davanti al grande disordine mondiale?
«Basta rileggere la sua opera. Diceva che lo slogan aveva sostituito il dialogo. Ci siamo. È stato profetico sotto molti punti di vista».