il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2019
Biografia di Michele Torpedine
Il suo “biglietto da visita” è dentro un numero: “In carriera ho venduto oltre 80 milioni di dischi. E nel mondo. Nessun altro manager italiano è arrivato a tanto”. Per raggiungere questo traguardo, Michele Torpedine ha scoperto, lanciato e seguito buona parte della hit parade made in Italy, da Giorgia a Gino Paoli, da Luca Carboni a Biagio Antonacci, e soprattutto Zucchero, con il quale non si è lasciato benissimo: “Racconta un sacco di frottole, e soprattutto non mi riconosce i giusti meriti: sono stato io crearlo”.
Nato a Minervino, Puglia, anno di grazia 1952, da ragazzo si stabilisce con la famiglia a Bologna (“ed eravamo poverissimi. Non poveri, proprio ‘issimi’”), fino a quando anticipa i comuni canoni della ribellione, e a 15 anni è già il batterista di una band, a 16 su un palco prima di Sua maestà Jimi Hendrix, mentre l’illuminazione decisiva arriva una sera a cena con Gino Paoli.
80 milioni.
Cinquanta e passa solo con Andrea Bocelli, un successo enorme, e il punto fondamentale è uno: in carriera non mi sono fermato a un solo artista.
Ha spaziato.
Quasi tutti i miei colleghi hanno impostato la carriera su un nome solo: Roberto Galanti da quarant’anni con Eros Ramazzotti, Guido Elmi tutto su Vasco Rossi, Angelo Carrara con Ligabue, mentre io ho investito su sette, otto nomi forti.
Con le sue “scoperte” non si è sempre lasciato benissimo…
Infatti ho pubblicato una biografia per ricostruire la storia, mi ero rotto le palle di ascoltare e leggere una serie imbarazzante di bugie o negligenze: con Zucchero all’improvviso non sono più esistito.
Nell’ombra.
Fino a quando si vendevano i cd, allora i ruoli erano ben definiti e scritti, ma da quando la musica viaggia solo in Rete, allora chi sta nell’ombra, nell’ombra muore, e i vari artisti all’improvviso fingono la memoria corta.
Ingrati.
Prenda Sanremo degli ultimi vent’anni, da quel palco sono realmente usciti solo tre nomi di livello internazionale: Bocelli, Giorgia e Il Volo. Tutti miei.
C’è anche Laura Pausini.
Lei solo in certi paesi, non nel mondo; comunque ho lanciato quei tre, eppure nelle varie commissioni non mi chiamano mai, preferiscono coinvolgere un mezzo cuoco (si riferisce a Bastianich).
Non la coinvolgono neanche nei talent.
Lì vincono le logiche televisive, non quelle oggettive, preferiscono puntare su un risultato gestibile.
Sempre.
Anche quest’anno per Sanremo si parla più delle vallette al fianco di Amadeus che della qualità dei concorrenti, anche a costo di riciclare artisti senza mercato come Al Bano.
Meglio con Baglioni.
Infatti non ho capito tutte le polemiche contro Claudio, uno dei pochi con un curriculum, mica come Zucchero.
È avvelenato con lui…
Non capisco il motivo delle sue parole, delle sue mancate verità.
Da quando e perché vi siete distanziati con Zucchero?
A un certo punto mi ha accusato di non essere all’altezza del mercato estero, per sua sfortuna poi ho lavorato con Bocelli e Il Volo, e certe tesi bislacche si sono sgonfiate, e ho dimostrato che il problema era dell’artista, non del management.
Cioè?
Gli americani non volevano e non vogliono ascoltare la brutta copia di Joe Cocker, meglio un made in Italy doc.
Però vanta duetti internazionali importanti.
Per forza, sono sodalizi creati da me e soprattutto pagati.
Zucchero sostiene che Miles Davis ha apprezzato la sua voce.
Macché! Non è vero, come non è reale la partnership con Pavarotti: la prima volta andai insieme a un paio di dirigenti della PolyGram da Luciano a Philadelphia e con l’incisione di Miserere, e ci disse di “no”. Subito dopo chiamai Zucchero per rassicurarlo: “Non ti preoccupare, trovo la soluzione”.
Qual è stata?
Dopo quindici giorni mi contattano: “Il maestro ti deve parlare”. Bene. Vado a Modena e Pavarotti mi racconta di un concorso ippico, e di uno spettacolo alla fine della gara. Accetto. Ma pongo una condizione: doveva cantare Miserere, e da lì è nato il Pavarotti and Friends.
Zucchero ha fama di caratteraccio.
In realtà è più egoista, pretende di apparire sempre e in qualunque occasione: per questo abbiamo perso la causa con gli eredi di Piero Ciampi.
In che occasione?
Quando in un brano inserì la frase: “Il mare impetuoso al tramonto, salì sulla luna e dietro una tendina di stelle… se la chiavò” (è anche il titolo della canzone). Ecco, bastava citare Ciampi, perché è una sua poesia, e tutto si sarebbe risolto, invece lui glissò.
Risultato?
Pagati fior di quattrini. E pensare che Piero Ciampi l’ho conosciuto benissimo, e con Paoli abbiamo inciso un album dedicato a lui, alla sua poetica. Album fantastico.
Ciampi genio e sregolatezza.
Lui e Léo Ferré in questo sono stati i numeri uno; a Piero le case discografiche lo avevano allontanato, non riuscivano a gestirlo, troppo imprevedibile. Poi è morto di cirrosi epatica.
Lei ha definito Paoli un “maestro”.
Perché mi ha aiutato molto: è stato il primo a darmi il ruolo di manager quando ero un batterista.
In quale contesto?
Una sera eravamo a tavola, e all’improvviso lo rendo partecipe di una riflessione: “Scusa Gino, c’è la Vanoni che fa i soldi con le tue canzoni, mentre tu guadagni il minimo e non arrivi a fine mese?”.
Addirittura.
A quel tempo suonavamo nei locali per due milioni a sera.
Non poco.
Ornella, Califano, Peppino Di Capri arrivavano a 25-30 milioni.
Insomma…
Prendo il coraggio e aggiungo: “Perché non organizzate una tournée insieme?”. E lui: “Te ne vuoi occupare?”. Quel tour è diventato un trionfo, record al Sistina di Roma, e la vita è cambiata per tutti, a partire dal punto di vista economico.
Fondamentale.
Vengo da una famiglia più che modesta, insomma messa male.
La Vanoni ha un animo schietto…
È di una simpatia unica, completamente fuori di testa, e con l’età si sente sempre più libera; io Ornella la amo da sempre, perché non ho mai apprezzato Mina: al suo urlare, ho sempre preferito chi alla tecnica associa il cuore; però mi è piaciuto l’ultimo album inciso con Fossati, ci sono dei pezzi da perdere la testa.
Secondo Adriano Aragozzini “gli artisti non sono mai riconoscenti”.
È vero, e un po’ di tempo fa mi ha stupito Jovanotti quando in un programma di Bonolis ha ricordato gli inizi della carriera, ha ringraziato Claudio Cecchetto, suo ex manager.
Qualcuno da salvare c’è…
Tra questi certamente Carboni: lo seguivo quando era agli apici, e una sera un tizio lo avvicina e gli propone un giro di fatture strane e di contanti; Luca non gi consentì neanche di terminare il discorso: “Io pago tutto, non ti permettere”. Anche i ragazzi de Il Volo sono speciali.
Un rischio del suo mestiere.
Ah, un classico è “l’effetto Yoko Ono”: spesso quando arrivano le fidanzate cambia ogni rapporto, saltano gli automatismi e lì scatta un detto: “Il manager è prima l’uomo che ti fa guadagnare l’80 per cento, dopo è quello che ti ruba il 20 per cento”.
Ed è dolore.
Degli artisti si sono rovinati appresso alle donne, in stile Bill Clinton.
Quando ha conosciuto Lucio Dalla?
A quindici anni, a sedici già suonavamo insieme alla Festa de l’Unità di Bologna, poi giravamo la città, e piano piano è diventato “Ragno”.
Il suo soprannome.
(Ride a lungo) Inevitabile vista la quantità di peli mai nascosta, anzi naturalmente esibita: quando andavamo a casa sua, era facile trovarlo vestito appena da un piccolo slip.
Però…
Era un grandissimo, dotato di bravura e sicurezza in se stesso, uno che viveva la città senza atteggiamenti divistici, ma come uno qualunque. (cambia discorso) A sedici anni ho suonato prima di Jimi Hendrix.
Non male.
Ero in uno dei gruppi di spalla per la sua tappa di Bologna. Niente cachet. Solo il premio di una foto insieme a lui e nei camerini; mentre suonavamo il pubblico era insofferente, volevano solo Hendrix, così ci tirarono di tutto.
Lei com’è oggi da batterista?
Con certi pezzi blues e soul ancora dico la mia, ma un po’ di tecnica l’ho persa.
Un rimpianto.
Ivano Fossati. Otto anni fa abbiamo lavorato insieme due mesi per creare un evento all’Arena di Verona: lui insieme a un gruppo di colleghi-artisti. All’ultimo ha rinunciato, non se l’è sentita, e dopo un po’ ha chiuso la carriera.
Con De Andrè ha lavorato?
Anni fa avevo un’agenzia con Bruno Sconocchia (storico manager di De Andrè), e condividevamo un gruppo di artisti come lo stesso Fabrizio, i Pooh, Giorgia, Antonacci e altri…
Quindi.
Ho più che altro collaborato con il figlio Cristiano per il tour “De Andrè canta De Andrè”…
Anche lui carattere particolare.
Come il padre.
Ma prima della svolta con Paoli, lei viveva di musica?
No, più che altro seguivo Bibi Ballandi (produttore e manager), ero il suo autista e tuttofare, compreso il segretario quando me lo chiedeva.
C’è un’ampia narrativa di autisti lesti alla scalata.
È vero, e anche di batteristi.
Come mai i batteristi?
Perché stanno sempre indietro, nessuno li considera, e si crea una sorta di ribellione; il più alto esempio è Stefano D’Orazio (dei Pooh): è lui l’anima manageriale del gruppo, non bravissimo a suonare, ma fenomenale nel gestire le sorti di loro quattro.
Mentre gli autisti ascoltano e imparano…
Esatto, fino a quando decidono di iniziare a suggerire e mutano le prospettive.
Bocelli.
Ah, e qui mi tocca parlare nuovamente di Zucchero.
Ancora?
Quando ho portato Andrea a Sanremo con Il mare calmo della sera, subito dopo la vittoria finale ho chiamato proprio Zucchero: “Bocelli è forte, lo produciamo insieme?”. Risposta: “Preferisco di no, lo trovo pessimo”. Oggi racconta a tutti di averlo lanciato.
La qualità più grande di Michele Torpedine.
La sensibilità di musicista e quella di capire immediatamente se un artista ha qualità; una sera vado in un locale di Roma, un posto molto frequentato dal mio ambiente. Mi siedo. E ascolto una vera “voce”: era Giorgia. Eppure prima di me nessuno si era accorto di lei, ed è stata una lotta farle cantare Come saprei. (Ride ancora)
Su cosa sorride?
Mi è venuta in mente un’altra vicenda legata a Zucchero: non voleva incidere Diamante, per lui era un pezzo melenso.
Torniamo indietro: ma quando lei a 15 anni andava in giro a suonare, i suoi cosa dicevano?
Mi riempivano di botte, perché non studiavo né lavoravo, e loro volevano almeno uno stipendio. Noi eravamo veramente poveri.
Il primo sfizio economico?
Dalla tournée di Vanoni e Paoli ho iniziato a sistemare la famiglia, ad acquistare il primo appartamento; il giorno in cui ho messo la moquette a casa abbiamo organizzato una festa. (Ci pensa) Ecco, dalla festa per la moquette poi sono arrivato alla Casa Bianca, e per ben due volte, prima con Clinton, poi con Bush e insieme ad Andrea Bocelli. Sì, chi lo avrebbe mai detto?