il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2019
In morte del giornalismo
Quando, tra qualche anno, le università studieranno la morte del giornalismo, non potranno prescindere dalla fine del 2019. In quei giorni – spiegherà il prof ai suoi attoniti studenti – la prima notizia sui principali quotidiani era un tragico ma ordinario incidente stradale, identico a quelli che accadono ogni giorno in tutte le metropoli del mondo. I loro siti trasmettevano in diretta streaming i funerali delle giovani vittime, falciate nottetempo da un giovane automobilista alticcio mentre attraversavano a piedi una strada buia col semaforo rosso, in una specie di roulette russa piuttosto diffusa nella zona. E l’indomani le prime pagine aprivano con l’omelia del parroco, dai contenuti davvero sconvolgenti: tipo che non bisogna guidare sbronzi. Negli stessi giorni l’Italia rischiava di darsi un sistema processuale semi-civile, adottando il sistema di prescrizione vigente da sempre nei paesi sviluppati: se lo Stato non dà un nome e un volto al colpevole di un reato, dopo tot anni il reato si prescrive; ma, se lo Stato individua il presunto colpevole, il processo arriva in fondo senza più prescrizione che tenga: se il tizio è innocente verrà assolto, se è colpevole verrà condannato e le vittime avranno giustizia. Questa norma di minima civiltà era stata invocata per 20 anni da tutti gli esperti in buona fede, scandalizzati da quell’amnistia selettiva, classista e censitaria che consentiva ai colpevoli ricchi e potenti di farla franca allungando ad arte i tempi dei processi con ricorsi, eccezioni, cavilli, ricusazioni, rimessioni e impedimenti pretestuosi fino alla prescrizione, magari dopo due condanne e un giorno prima della terza e ultima, con tanti saluti alle loro vittime.
Così, negli ultimi 10 anni, si erano prescritti 1,5 milioni di processi, cioè l’avevano scampata oltre 2 milioni di colpevoli (i processi di solito hanno più imputati) ed erano rimaste senza giustizia almeno 3 milioni di vittime. La prescrizione, infatti, è riservata ai colpevoli: gli innocenti il giudice è tenuto ad assolverli, non a prescriverli (se non c’è reato, non c’è nulla da prescrivere). Per vent’anni i maggiori quotidiani avevano raccontato e deplorato questo sistema scandaloso, che aveva miracolato addirittura due ex premier: Andreotti (prescritto per mafia) e Berlusconi (9 volte prescritto per corruzione di giudici, senatori e testimoni, finanziamenti illeciti a politici, falsi in bilancio e frodi fiscali). E avevano ospitato giuristi e magistrati che chiedevano di riportare la prescrizione al suo spirito originario: se a un reato non segue un processo, dopo un po’ si volta pagina; ma se il processo è partito, deve arrivare alla fine.
Non per nulla, la prescrizione durante il processo esisteva solo in Italia e in Grecia, finchè una norma della legge Spazzacorrotti voluta dai 5Stelle, ma annunciata per anni anche dal Pd, la bloccò dopo la sentenza di primo grado per i reati commessi dal 1° gennaio 2020. Ma la cosa, anziché rallegrare quanti avevano sempre sostenuto quella riforma di puro buonsenso, li gettò nel panico e nella costernazione. I giornali che avevano sempre denunciato lo scempio dei 150 mila processi prescritti all’anno, cominciarono a difendere la vecchia prescrizione unica al mondo (Grecia a parte). La Stampa, che un tempo ospitava gli editoriali di grandi giuristi come Alessandro Galante Garrone e magistrati come Giovanni Falcone, pareva la parodia degli house organ berlusconiani, con titoli del tipo: “Prescrizione, per salvare Conte il Pd cede alla riforma dei 5Stelle. Gli avvocati prevedono una pioggia di ricorsi: norma punitiva,così si torna al Medioevo”, “Zingaretti si arrende al giustizialismo”, “I dem sperano nella Consulta” (come se farla franca fosse un diritto costituzionale). Il Corriere della sera, facendo rivoltare nella tomba le sue grandi firme del passato nemiche della prescrizione, da Vittorio Grevi in giù, si affidava ai delirii di Angelo Panebianco: il noto giurista per caso sosteneva, restando serio, che bloccare la prescrizione “è quanto di più vicino ci sia all’introduzione della pena di morte” (che dunque vige in tutto il resto d’Europa all’insaputa dei più); vìola “il principio di non colpevolezza” (ma agli innocenti si dà l’assoluzione, non la prescrizione); infrange “l’equilibrio fra potere politico e ordine giudiziario” (ma la prescrizione riguarda tutti i reati, mica solo quelli dei politici: forse per Panebianco tutti i politici sono colpevoli?). E lanciava uno straziante Sos alla Consulta (senza precisare quale articolo della Costituzione imporrebbe la prescrizione fino all’ultimo grado di giudizio).
Ma il meglio, come sempre, lo dava Repubblica: dopo aver pubblicato migliaia di articoli per chiederne lo stop, affidava l’encomio solenne di Santa Prescrizione a Luigi Manconi, che la definiva “prezioso istituto di garanzia del singolo”, scavalcando a destra persino B. e bollando di “populismo penale” vent’anni di battaglie del suo giornale. Poi definiva la prescrizione “uno dei maggiori fattori di accelerazione del processo” (infatti gli avvocati, quando manca poco alla decorrenza dei termini, chiedono al giudice di fare udienze a oltranza, anche di notte, inclusi i festivi, per scongiurarla). E, dopo un corso accelerato di diritto presso il Divino Otelma, spiegava agli stupefatti lettori di Repubblica che, con la “sciagurata” norma Bonafede, “potrà succedere che chi sia stato assolto dopo 29 anni e mezzo dall’accusa infamante di voto di scambio, venga condannato al limbo dell’incertezza processuale per un altro lustro”. Cioè restare imputato per 35 anni. Peccato che il voto di scambio, punito dai 10 ai 15 anni con la riforma del 2018, si prescriva dopo 18 o 19: la metà di 35. I funerali dell’informazione si svolgeranno in luogo e data da destinarsi. In diretta streaming sui siti dei migliori quotidiani, ça va sans dire.