La Stampa, 29 dicembre 2019
I 100mila italiani che coltivano la canapa in casa. Intervista a Marco Rossi, docente di Economia politica che insegna anche Economia della cannabis
Macché ragazzini squattrinati o spacciatori. Sono ricchi, istruiti e over 35. E tanti, quasi centomila. È l’esercito di chi a casa – sul balcone o dentro un armadio – coltiva una piantina di cannabis per sé. E ora può sorridere per la sentenza della Cassazione secondo la quale il reato non c’è più: se la quantità prodotta è modica e gli strumenti utilizzati sono rudimentali, via libera. Marco Rossi, docente di Economia politica, insegna anche Economia della cannabis, caso unico in Italia, alla facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione della Sapienza di Roma. Il popolo dei coltivatori fai da te l’ha studiato a fondo: un lavoro di ricerca, il suo, basato sull’incrocio tra centinaia di interviste a frequentatori di fiere di settore e modelli economici applicati alla filiera dei cannabis shop.
«I consumatori e i coltivatori in casa sono in aumento costante da un decennio e stimiamo che siano tra i 50 e i 100mila. Del resto il boom dei negozi, moltiplicati per sette, basta a farlo capire. Ma con le nostre analisi siamo andati oltre e abbiamo delineato il profilo del settore, naturalmente escludendo chi coltiva per vendere e limitandoci all’autoconsumo – spiega Rossi –. E il profilo che emerge è diverso da quello che si è soliti immaginare».
Cioè?
«Più il consumatore gode di una buona posizione sociale e lavorativa, più è probabile che coltivi la cannabis in casa. Anche l’età tende ad essere più alta tra chi sceglie il fai da te rispetto a chi compra altrove: tra gli over 35, almeno un consumatore su tre sceglie di far crescere la piantina in casa anziché acquistare in giro, mentre tra i giovanissimi lo fa solo il 5%».
Come lo spiega?
«Comprare da uno spacciatore espone a pericoli che chi ha un elevato capitale sociale non vuole correre: un professionista ha una reputazione da proteggere e trova più sicuro fare da sé piuttosto che rischiare grane. Questo nonostante nella sub-cultura dei grower non ci sia la percezione di essere al di fuori della legge, anzi molti vivono la loro scelta come una contrapposizione al mercato illegale. C’è un valore simbolico positivo che, ad esempio, è facile rintracciare nei forum e nelle chat online. Quella del grower è un’identità».
C’è anche un valore economico. Quanto si risparmia?
«Un grammo si può produrre ad un costo che va da uno a tre euro, contro i 10 che servono per acquistare su altri canali. Consideri poi che a coltivare in casa sono perlopiù consumatori assidui, dunque il risparmio è notevole. Anche se possono servire fino a mille euro per comprare strumenti di qualità».
La Cassazione dice che si può coltivare in casa per autoconsumo, a patto che la quantità sia moderata e gli strumenti rudimentali. Cosa ne pensa?
«Non sono un giurista, ma mi pare che la sentenza cristallizzi una realtà di fatto. Certo quei paletti non sono secondari: ad esempio, per avere la produzione costante che cerca un consumatore abituale, determinati strumenti servono. Da economista, mi limito a dire che si può dare uno stimolo importante contro il mercato illegale e far emergere un intero settore».
Cosa accade negli altri Paesi? La coltivazione in casa è solo una risposta ai divieti?
«Ci sono situazioni molto diverse in ragione delle differenze storiche, legislative e climatiche. In Italia il fenomeno è recente: le coltivazioni clandestine, anche per l’autoconsumo, in passato erano solo nei campi per tenerle nascoste e per sfruttare il clima mediterraneo, che è un alleato del fai da te diffuso anche in Spagna. In Olanda, nonostante la disponibilità di cannabis nei negozi, la coltivazione in casa è da sempre sviluppata per ragioni culturali ma anche per il basso costo dell’energia, come in Canada». —