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 2019  dicembre 28 Sabato calendario

Biografia di Julien Moore raccontata da lei stessa

«Sono ad un punto della vita dove conta di più vestirsi per le amiche che per il marito». Filo di rossetto, jeans e una camicia verde che la fa sembrare, parole sue, «il Grillo parlante di Pinocchio», Julianne Moore, 59 anni appena compiuti, batte tutti sul tempo. Mentre ritirava l’Oscar per un film sul dramma dell’Alzheimer precoce – miglior attrice in Still Alice, 2015 – il settimanale Time la inseriva nella hit parade delle cento persone più influenti al mondo. «Lo showbiz? Pura astrattezza» dice. «La famiglia, quello sì che è un duro lavoro! Poi, si sa, i figli crescono e l’amore cambia. Una volta sfilavo il berretto dalla nuca di mio marito per sentirmi attraente, oggi lo indosso al rovescio per andare a prendere un tè con le amiche». Ha le mani appoggiate al tavolo di una stanza d’hotel, con l’Empire State Building alle spalle, nascosto da una pioggia scrosciante. «Alle medie ero la sfigata in attesa di un miracolo» racconta. «Tutte le scuole si contendono l’adolescente basso, il secchione con gli occhiali, la tipa che fa schifo a ginnastica. Io incarnavo tutti e tre i profili allegramente». Madre assistente sociale, il papà giudice militare. «Viaggiavamo tanto. Da piccola ho seguito mio padre, ex colonnello liberal, fino in capo al mondo. Quando la famiglia si è stabilita a Boston ho cominciato a studiare recitazione». Dalle soap agli horror di serie B. Nel film Un salto nel buio una mummia le infilava un vaso di fiori su per la schiena. A metà anni Novanta la carriera decolla: la chiamano Louis Malle ( Vanya sulla 42ª strada), Robert Altman ( America oggi) Todd Haynes ( in Safe è la casalinga della San Fernando Valley che soffre di sensibilità chimica multipla), Steven Spielberg, Paul Thomas Anderson e i fratelli Coen. Ha scritto una serie di libri illustrati, Freckleface Strawberry, rigorosamente per bambini: «Prima della favola chiamata Hollywood, conoscevo solo la bambina dai capelli rossi e con le lentiggini in viso: io a sette anni. Sapere che le mie storie sono sui banchi di scuola per combattere il bullismo, mi dà grande gioia. Ne hanno tratto addirittura un musical». E quel berretto rubato per piacere al filmmaker Bart Freundlich? «Ora seduco il mio compagno dicendo sì ai suoi film» sorride. Dopo il matrimonio, ispirato al film danese del 2006 di Susanne Bier e diretto dal marito di Moore, uscirà a marzo in Italia, distribuito da Lucky Red. È stata lei a convincere suo marito a girare un remake di “Dopo il matrimonio”? «Premessa: questo è il quarto film che io e Bart facciamo insieme. Ci siamo conosciuti sul set de I segreti del cuore. Quando ha ricevuto il copione mi ha guardato e mi ha detto: “Perché girare la versione americana di un film già bello?”. La mia intuizione è stata quella di cambiare il genere dei protagonisti e farne una storia tutta al femminile. Al centro c’è il personaggio di Michelle Williams (Isabel) che gestisce un orfanotrofio nel Sud dell’India e deve viaggiare fino a New York per convincere la benefattrice Theresa – io – a non tagliare i fondi». Il film è anche una riflessione sulle differenze di classe e sulla ricchezza. «Mentre Isabel è schiacciata dai problemi del Terzo Mondo, Theresa detta l’agenda dal suo ufficio di lusso a Manhattan. Tutte e due però si fanno la stessa domanda al mattino: “Per che cosa combatto?”. In India slum e baraccopoli sono aree periferiche dove si nota di più il fallimento delle politiche per l’ambiente. New York fa ancora più paura, secondo me. La povertà è dentro il tessuto sociale, tra noi. Vedo gente in città lamentarsi di com’è la vita dopo aver bevuto acqua filtrata e poggiato la testa su un cuscino per la cervicale». Come riesce a stare dentro e fuori il sistema? «Se lo sapessi, a quest’ora sarei una businesswoman! In realtà a tenermi incollata a un progetto è sempre la storia. Non so come si fanno i soldi in quest’industria e non so che futuro mi aspetta a quasi sessant’anni d’età. Noi attori siamo l’ultima ruota della catena di montaggio: dobbiamo consegnare il prodotto ed essere credibili. Ci chiamano per questo. Il cinema indipendente ha buoni anticorpi ma tratta ancora donne e genitorialità in maniera poco profonda. Ecco perché ho scelto di produrre Dopo il matrimonio io stessa». Si batte per i diritti dei gay e contro le armi. È una delle ambasciatrici di Save the Children. La prossima causa? «Quella che sto portando avanti da quando ho messo piede a Hollywood. Mi sono sempre considerata una femminista. Il problema della disparità tra uomo e donna riguarda tutti noi. La mia lotta inizia da casa: ai miei figli – ormai dei piccoli adulti – insegno a restare aperti; li tratto da umanisti, non da femministi. In famiglia tifiamo per il Come Together, come i Beatles. Siamo un collettivo». La politica l’appassiona ancora? «I canali di informazione trasmettono solo cattive notizie. Non c’è tregua. Per un po’ starò alla larga da notiziari e social. Anzi, se qualcuno si avvicina e mi chiede “Julianne, che hai da dire su questo argomento?”, d’ora in poi risponderò: “Intanto alziamo il sedere e cambiamo il mondo, poi ti dico che ne penso"».