la Repubblica, 28 dicembre 2019
I maestri delle microstorie
A Djiajelli una vergine di tredici anni ha ucciso con tre coltellate un suo impudico molestatore, di anni 10» : è un romanzo, anzi, un fatto di cronaca nera; lo scrisse Félix Fénéon su Le Matin, nei primissimi anni del ’ 900, insieme a centinaia di altri: voleva distillare in tre righe la tracotante normalità di provincia. La sua rubrica di chiens écrasés divenne un culto letterario – se le storie fossero inventate che importa. Il racconto è «un’operazione sulla durata» diceva Calvino; più si condensa più il lettore è chiamato a riempire il vuoto. Siamo nel dominio dell’ellissi, ed è chiaro che titolo, incipit e finale diventano determinanti. Si deve imboccare la strada giusta al primo colpo; è uno scatto, spesso giocato sullo spiazzamento, dove l’accumulo diventa spazzatura. Il primo a cimentarsi con la forma bonsai è Baudelaire, maestro di densità, con i suoi Piccoli poemi in prosa, nel 1862, ma di maestri ne abbiamo avuti tanti e irregolari ( Rubén Darío, Kraus, Flaiano, Baroncelli). Si va dalle six- word stories ( ricordate Hemingway? «Vendonsi scarpe per neonato: mai usate» ), alle flash fiction ( «Quando mi svegliai, il dinosauro era ancora lì» di Monterroso), fino alle due pagine; oltre, si passa nel campo del racconto propriamente detto, ma i confini tra racconto, novella e romanzo rimangono per fortuna sfumati. Al tempo di Twitter e di Instagram, la microfinzione sembrerebbe una manna salvifica nell’intersezione parecchio idolatrata di realtà e narrazione, eppure non è così: il web è riluttante e gli editori si sperticano per evidenziare che una certa opera composta da storie è bensì un romanzo e non una raccolta di racconti – poveri racconti! Quest’anno dobbiamo gioire perché Régis Jauffret ha scolpito un monumento alla narrazione ristretta, 500 storie da due pagine ciascuna, 3000 personaggi, 1024 pagine; l’universo di Jauffret è lo stesso della Bibbia, ma la sua è una bibbia del contemporaneo, con comparse e scomparse, con un’onda di personaggi e fatti che si delinea come un grande romanzo europeo in cui il protagonista è il degrado – la consunzione silente che domina il nostro tempo. «Ho dato voce alla folla» mi ha confessato Jauffret a Roma. «Una moltitudine anonima, dove ogni volta un io prende la voce e parla come se tutto passasse attraverso sé stesso». Sono vite succinte, minime, che si divincolano come se ci fosse una sola emozione a dominare la scena. Scorrono le pagine e s’accavallano storie avvelenate, spolpate dall’inutile e fatte di una lingua raschiata, con i personaggi storditi da un vaccino che gli impedisce di vedere le cose come stanno. «Per me c’è una storia quando qualcosa va male. Il più delle volte la realtà mi sembra spietata; anche se subito dopo appare tenera – tenera ma pur sempre spietata. Mi accusano di eccesso di invenzione. Io sono convinto che l’iperimmaginazione permette di raccontare storie ancora più reali» mi ha detto. Microfictions svela il laboratorio dello scrittore, perché per cinquecento volte lo vediamo ripartire daccapo. «Devo sempre andare avanti». La massa è decisiva. «È la quantità che determina la qualità. La Recherche di Proust non sarebbe stata la Recherche, se fosse stata lunga duecento pagine». Leggiamo qualche microfinzione. Provo a condensarne una in tre frasi: «Ricordi com’era un tempo il futuro? Sono bastati dieci anni a fare di noi i vecchietti della nostra storia. La nostra storia non meritava di essere raccontata e noi siamo stati così sciocchi da averla vissuta». Cosa volete di più? Sentite quest’attacco: «Mia figlia non ha più la testa, e mia moglie nemmeno. Il massacro verrà attribuito a dei giovani cretini abbastanza arabi e pii da passare per terroristi». E quest’altro: «Non avremo figli. Mia moglie ha raggiunto il punto di non ritorno. Per il resto della nostra esistenza ci contenteremo di guadagnare soldi e di andare in vacanza all’altro capo del mondo in hotel belli come miracoli». Non svelo cosa capita a un nipote a caccia di eredità che passa qualche giorno da loro. Jauffret riduce al massimo la distanza tra la frase e il messaggio che dischiude perché solo la finzione ci permette di indagare su cosa è veramente successo. Siamo storditi dalle voci ma alla fine sentiamo un’unica voce, un corpo e le sue cellule, una solitudine al plurale. Quando gli chiedo dei suoi modelli per le microfinzioni, Jauffret si rifugia nella naïveté: «Non ho letto altri scrittori di racconti brevi. La mia scrittura è molto animalesca. Scrivo una storia al giorno tutti i giorni, anche perché non ricordo più quelle che ho già scritto». Jauffret ha trovato la chiave per raccontare il mondo: bandire le cornici e puntare dritto all’inaccettabile. «Mi servirebbero un po’ di anni per trovare la porta dell’aldilà, socchiuderla, dire cosa c’è dietro. Lo saprò presto ma non credo ai fantasmi e quindi non tornerò a raccontarglielo», si conclude così una delle ultime microfinzioni. Eh, sì, Jauffret e Fénéon hanno ragione: la letteratura è una strana forma di ipersensibilità che implica la condivisione: «Se smetto di scrivere morirei. Se mi tagliassero le vene, uscirebbero solo storie».