la Repubblica, 28 dicembre 2019
Parla Federico Buffa
ederico Buffa non ha uno smartphone, non si rivede mai in tv e dice che la parola storytelling gli fa orrore. Ma questa, direbbe lui, è un’altra storia. I teatri con i suoi spettacoli – si tratti di Ali o di Kubrick – sono pieni di ragazzini, così come giovani sono i telespettatori che dai suoi lavori si fanno guidare nella conoscenza del passato: l’ultimo on demand su Sky è dedicato a Gigi Riva. Com’è finito a raccontare lo sport? «Sono stato salvato dalle acque. Sono un avvocato, ma non volevo esercitare. Sapendomi baskettaro, l’allora direttore di Tele+ Andrea Bassani mi chiamò a commentare delle partite. Vent’anni dopo mi ha confessato che l’ad di allora, alla prima telecronaca disse: non me lo fate sentire mai più. Volevo andare a vedere la finale olimpica di Londra tra Usa-Spagna e invece mi ritrovai due anni dopo ai Mondiali di calcio. Per dare un senso a quella mia presenza, sono nate Storie Mondiali ed è cominciata la slavina». Che le pare della parola storytelling? «Oscena. Tra narratore e storyteller è meglio narratore. Non capisco perché tante volte una bella parola italiana sia sopravanzata da un’altra meno bella. Ora pare che tutto sia storytelling ma le storie sono sempre esistite. Casomai esistono stili diversi di narrazione». Il suo qual è? «Quando ho iniziato presi a modello Philippe Daverio in Passepartout. Ho tutte le puntate registrate. Servizio pubblico puro». Anche il suo obiettivo è divulgare? «Avrei questa velleità. I ragazzi italiani non sono così passivi come vengono rappresentati. Ho il privilegio di avere un pubblico giovane. È una responsabilità che sento e che mi prendo». Cosa pensa del giornalismo sportivo italiano? «Non mi piace che tante volte costruisca storie prima che succedono. Quello che mi piace è che ci sono firme eccezionali con un timbro diverso». Ne scelga una. «Gianni Clerici. Dà l’idea di come si possa parlare di sport senza parlare di sport. Una roba per fuoriclasse. Quando facevo coppia con Flavio Tranquillo in telecronaca e ci dicevano che eravamo ispirati da Tommasi e Clerici, per me era il più grande complimento possibile». Le mancano le telecronache di basket? «Mi mancano le finali. Dove vedi tutti i migliori al mondo del tuo sport che giocano forte. La Nba è troppo lunga e in tanti momenti della stagione si gioca perché si deve. Ma quando spingono per davvero, non c’è niente che ci vada vicino. Forse solo Federer-Nadal dal vivo». Le piace il tennis? «Mi piace lo sport dei grandi atleti. Una storia che mi entusiasma è quella di Phelps. L’uomo che non sapeva vivere fuori dall’acqua. I due Phelps. Il disadattato che si muove all’asciutto e l’uomo pesce con una longevità agonistica inspiegabile». Qual è lo sport più letterario oggi? «È ancora il pugilato, benché non esista più, o forse proprio per quello. Quando Scorsese sale con la steady cam sul ring di Toro Scatenato, cambia la storia del cinema. Ti mette dentro il match. Da bambino andavo in bici sotto casa di Riva e aspettavo che uscisse sul balcone a fumare. Gli sportivi di oggi sono prigionieri di se stessi. Ancelotti mi ha detto: sono cresciuto zappando la terra, questi ci mettono 10 minuti per sistemarsi i capelli prima di giocare». Non le danno mai del passatista? «Sono abbastanza abile nell’anticipare l’obiezione. È un privilegio raccontare storie del passato anziché l’attualità. Ti salva. Non ho nessun problema ad ammettere che questo non è più il mio mondo. Non ho attrazione per i social media. Ho un’ossessione per la privacy. Vivo per conto mio con le persone che mi piacciono. Ammetto di essere un anziano». Che cos’è la nostalgia? «È la memoria con un altro nome. Ho una devozione forte verso il concetto di memoria. Ho perso mia madre per l’Alzheimer. La perdita della memoria genera la perdita di identità. Della memoria ho una visione muscolare. Faccio esercizi. La irroro. Amo l’Argentina perché lí ho la sensazione di tornare nell’Italia di una volta, dove le persone si aiutavano. È questa la parte di mondo di cui sono nostalgico. La condivisione dei problemi». Questa fuga dall’attualità c’entra con il salotto calcistico abbandonato anni fa dopo una puntata? «Quella è una storia bruttissima. I due giorni successivi ero frastornato. Ricevetti messaggi anonimi e telefonate che dicevano: attento a come parli, calcio uguale voti, sappiamo che hai aderito al partito radicale. Era vero. Sono cresciuto con le battaglie per i diritti civili negli anni 70. Mi chiedevo: come fanno a saperlo? Non era la mia tazza di tè. Io sono quello che racconta perché LeBron perde le finali». Con quella domanda in spagnolo a Luis Enrique si presentò come un alieno. Imperdonabile. «Io non do molta importanza a quel passaggio. Volevo fargli i complimenti ma fu una pessima esibizione da parte mia. Non dovevo fare la trasmissione e la feci male. Per stare seduto su quello sgabello bisogna avere spalle che non ho e non voglio avere. Trovo interessanti altri contesti. Per esempio: il calcio europeo che guarda al modello Nba». Funzionerà? «È evidente che vanno là, contro la cultura centenaria dello sport europeo. Non so come, ma ce la faranno». Niente più storie alla Gigi Riva? «Esatto. È noi contro voi. Prendi Barack Obama il giorno della rielezione e Steve Jobs il giorno in cui presenta il primo iPhone. Us e we. Obama è inclusivo. Le frasi sono un tergicristallo che iniziano qua e finiscono là: we, noi. Steve Jobs parla dritto: noi che abbiamo questo strumento. Una idea di separazione dagli altri. Us. Il complemento oggetto. È proprio quello che farà il calcio: noi, voi. Us e we. Vinceranno e noi dovremo fare qualcosa per non essere cancellati dal mondo». Raccontare gli sconfitti? «Ho un’enorme attrazione per loro, ma il pubblico molto meno. Il mondo superominico che si continua a celebrare è dall’altra parte. Eppure ci saranno sempre sacche di narrazione nella tv che rallenta di un battito, come ci diciamo a Sky con Zappia, rispetto al ritmo cardio chiamato a mostrare quattro volte un filo d’erba che sfiora lo zigomo». Non resterà che la memoria? «In tutto il mondo buttano giù gli stadi e mettono targhe. Noi non sappiamo dove si è giocata la finale mondiale del 1934. A Montevideo, davanti a una tintoria, c’è la porta dello stadio dove un operaio della Peugeot segnò il primo gol in un Mondiale. Lo hanno demolito ma lo ricordano. A Vittorio Pozzo è dedicato solo lo stadio di Biella. Secondo me sbagliamo noi».