la Repubblica, 27 dicembre 2019
Dopo dieci anni chiude il Newseum, il museo delle notizie di Washington
Avete ancora cinque giorni per volare a Washington e visitarlo prima che chiuda per sempre. L’indirizzo è 555 Pennsylvania Avenue North- West, a poche centinaia di metri dal colle del Campidoglio americano, dove il Congresso affronta la seconda fase dell’impeachment. Il Newseum scompare proprio mentre la democrazia americana vive un momento drammatico e il ruolo dei media sembra compromesso: con un presidente che attacca la stampa, un’opinione pubblica che si sceglie notizie “su misura”, un mondo dell’informazione diviso in tante casse di risonanza dove ciascuno cerca conferma dei propri pregiudizi. Il Newseum, crasi di “museo delle notizie”, aprì l’11 aprile 2008, cioè in epoca tutt’altro che felice sia per gli Stati Uniti che per i media. Volgeva al termine il secondo mandato di George W. Bush, rieletto quattro anni prima nonostante avesse invaso l’Iraq e mentito al mondo sulle ragioni di quella guerra.
Molti giornali rispettabili e progressisti, in testa il New York Times, avevano fatto da cassa di risonanza per le bugie di Bush, Colin Powell, Tony Blair ed altri. Era già in piena crisi la carta stampata, l’anno prima dell’inaugurazione del Newseum i giornali americani avevano licenziato 2.400 dipendenti. Infatti qualcuno criticò il tempismo di quell’operazione dispendiosa, l’apertura di un museo magnifico sponsorizzato e finanziato dagli editori del New York Times, Wall Street Journal, e dai quotidiani locali del gruppo Hearst, nonché da Bloomberg e Abc. Negli oltre undici anni di vita, però, il Newseum ha accolto dieci milioni di visitatori: un successo meritato. Li attira fin dalla parete esterna, con l’insolita esibizione delle prime pagine di quotidiani, nazionali e internazionali: un viaggio all’antica tra le “breaking news”, un modo rudimentale ma efficace per farsi subito un’idea delle diverse agende e gerarchie d’importanza delle notizie, cogliere fin dal taglio dei titoli le angolature con cui lo stesso evento è annunciato da un giornale nordamericano o sudamericano, europeo o mediorientale. Non poche di quelle testate sono defunte, o hanno percorso la transizione dal cartaceo al digitale: metamorfosi che lo stesso Newseum ha raccontato, analizzato.
All’interno, “pezzi di notizia” sono in bella mostra: un enorme frammento del Muro di Berlino e di Checkpoint Charlie, un’antenna del World Trade Center abbattuta l’11 settembre 2001. Quel che accadde crediamo di saperlo, ma il Newseum ci descrive il modo in cui l’evento venne descritto e analizzato dai media, e subito ti invita nel regno dell’interpretazione. La cronaca come “prima versione” della grande storia, è anche disseminata di errori, in buona o in cattiva fede. Il Freedom Forum che è tra i creatori del museo rende omaggio a 2.344 giornalisti morti sul lavoro dal 1837. Spesso uccisi da chi considera l’informazione un pericolo, la stampa un nemico. L’elenco tragico si allunga ogni anno, nel 2019 sono stati aggiunti 21 nomi tra cui quello di Kashoggi. Lo stesso Freedom Forum aggiorna le mappe mondiali sulla libertà di espressione; il periodo delle grandi avanzate nei diritti si è esaurito da tempo.
Non sempre il Newseum è riuscito a evitare l’autocelebrazione, seguita dall’autocommiserazione. Ora ci casca in pieno il giornale più vicino, il Washington Post, che annuncia la sua chiusura con questo titolo: «Nacque in un’èra di grandi speranze, muore al tempo delle fake news». Servirebbe un po’ più di autocritica, da parte del museo e dei giornali che lo hanno sostenuto. Per esempio sul feticismo tecnologico, che ha fatto degli stessi giornali e dei loro siti i primi a inculcare un’idea magica di Internet, o il principio dissennato che l’informazione è gratuita, quindi vale poco. Le mostre su approfondimenti tematici al Newseum sono eccellenti, per esempio quella sulla “Digital disruption of news”. Ma non sempre vanno al fondo delle responsabilità e delle cause, per spiegare come il pubblico abbia perso fiducia negli intermediari delle notizie. Molto sopravvive, però, e tanta qualità: per esempio continueranno la loro vita altrove cinque esposizioni itineranti dedicate ai più bravi photoreporter del nostro tempo. Forse è inevitabile che l’informazione non abbia più il proprio museo: in ogni angolo del pianeta qualcuno sta lavorando per reinventarla.