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 2019  dicembre 27 Venerdì calendario

Le pubbliche amministrazioni non sono in grado di incrociare i dati dei loro archivi informatici

C’è una legge che vieta a un ufficio pubblico di chiedere ai cittadini documenti già in suo possesso. È stata approvata il 28 dicembre del 2000, e sta dunque entrando nel ventesimo anno di vita. Ma è finita anch’essa nel grande buco nero della nostra burocrazia. Nessuno se la ricorda, semplicemente perché non viene praticamente applicata. La ragione, dice uno studio dell’Osservatorio dei conti pubblici di Carlo Cottarelli, è assai semplice: le pubbliche amministrazioni non sono in grado di incrociare i dati dei loro archivi informatici. Gli autori Alessandro Banfi e Gianpaolo Galli fanno questo esempio: «Non esiste oggi la possibilità di incrociare le banche dati anagrafiche per la patente di guida e la carta d’identità, il che significa che un cittadino in possesso di una carta d’identità deve fornire tutti i propri dati all’amministrazione per poter fare la domanda per la patente. Lo stesso vale per il passaporto, o per il certificato di laurea richiesto dagli enti previdenziali per la domanda di pensione…».
Possibile ritrovarsi ancora a questo punto, nel 2019? Possibilissimo, sostiene lo studio, se si considera che in Italia «manca un modo univoco e universalmente accettato per definire l’identità digitale delle persone e delle imprese». Negli anni Novanta ci si provò con il codice fiscale, e non ci fu niente da fare. Poi hanno fatto lo Spid, il “Sistema pubblico di identità digitale”, che «a tutt’oggi ha una diffusione limitata». Al punto che «non si ha notizia di operatori privati (banking online, aerei, treni) che utilizzino lo Spid». Anche perché «non è chiaro quali vantaggi ci siano per i fornitori del servizio»: nove soggetti, da Aruba alle Poste, che generalmente offrono il servizio a pagamento. Idem per gli utenti, «dal momento che quasi tutti i servizi della pubblica amministrazione sono accessibili con metodi più semplici».
L’Agenzia per l’Italia digitale presieduta dall’ex deputato di Scelta civica Stefano Quintarelli ha annunciato un piano “2025”, con l’obiettivo di creare «una sola identità digitale per ogni cittadino». Evviva. Se funzionerà avremo raggiunto l’obiettivo, stigmatizza lo studio dell’Osservatorio, «dopo almeno vent’anni di tentativi falliti» mentre in India ci sono giù riusciti «per oltre un miliardo di persone». Un confronto che deve farci arrossire. Almeno quanto quello con gli altri Paesi europei. Un rapporto della Corte dei conti sulla digitalizzazione del Paese, che ha preso in esame indicatori riguardanti l’attività degli uffici pubblici, è arrivato alla conclusione che nell’Europa a 28, comprendendo quindi anche il Regno Unito, occupiamo la casella numero 24. Dietro a Paesi quali Ungheria, Cipro e Slovacchia senza praticamente fare un passo avanti, in questa classifica, da cinque anni a questa parte. Ce la battiamo con Bulgaria, Grecia, Polonia e Romania, ma siamo lontani anni luce da Francia, Germania, Regno Unito. E dalla Spagna. Mortificante.
Se poi si prendono in considerazione le sole interazioni con la pubblica amministrazione attraverso internet, allora siamo addirittura penultimi, davanti alla sola Grecia. Ma per un pelo: gli italiani che parlano con gli uffici pubblici via web sono soltanto il 37 per cento, contro il 36 per cento dei greci.
Difficile stupirsi, del resto, se a un’abitudine nell’uso delle tecnologie già non particolarmente diffusa si somma quello che la Corte dei conti ha definito «un quadro non confortante della pubblica amministrazione italiana». Ce l’hanno, i giudici contabili, con la profonda inefficienza nell’impiego delle risorse finanziarie. Ogni anno lo Stato e le amministrazioni locali spendono per l’informatica 5,8 miliardi di euro, ma le gare per l’assegnazione degli appalti in questo settore possono durare, rivela il rapporto della Corte sulla digitalizzazione, «da un minimo di 11 a un massimo di 24 mesi». Tempi, sottolinea lo studio dell’Osservatorio guidato da Cottarelli, che evidentemente «non consentono di tenere il passo con il dinamismo che caratterizzano il mercato informatico». Ovvio: due anni sono più che sufficienti a far diventare vetusta qualunque tecnologia informatica.
Quanto alla disponibilità di dati pubblici in rete, è vero che le cose vanno un po’ meglio, anche per i provvedimenti approvati negli ultimi anni con cui le amministrazioni sono state obbligare a rispettare determinati livelli di trasparenza: la ricerca ricorda per esempio il decreto Madia del 2016 che consente a tutti i cittadini di chiedere ogni atto non segreto alla pubblica amministrazione senza dover motivare la richiesta. E lì, oggettivamente, occupiamo un ben più confortante quarto posto nella classifica europea sulla quantità e la qualità delle informazioni. Anche se lo studio segnala il problema che questi dati «non sono certamente utilizzabili con facilità». Citando il caso dell’Istat, «che pure ha come sua missione quella di mettere i dati a disposizione del pubblico ed è certamente all’avanguardia nel panorama italiano: è esperienza comune dei ricercatori in campo economico e sociale che è più agevole trovare i dati sull’Italia nei siti dell’Eurostat o del Fondo monetario internazionale che in quello dell’Istat».