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 2019  dicembre 27 Venerdì calendario

Intervista a Ursula von der Leeyen. Parla del piano verde, di Libia e di migranti

La nuova presidente della Commissione europea ha tre sogni: «Durante i miei cinque anni di mandato vorrei riuscire a dimostrare che il Green deal conviene a tutti, vorrei uscire dallo stallo sulle politiche migratorie e vorrei rinforzare l’euro». Tedesca, grande amica di Angela Merkel, Ursula von der Leyen da quando si è sistemata al tredicesimo piano di Palazzo Berlaymont ha già cambiato molte cose e in questa intervista esclusiva a Repubblica ci spiega non solo la sua visione di una Europa verde, ma anche di una Ue capace di creare campioni globali rivedendo le regole della concorrenza. Ma a cambiare, con il suo arrivo, non sono state solo le priorità politiche della Commissione europea. Persino l’ufficio fino a quattro settimane fa di Jean-Claude Juncker ha un aspetto diverso. Due ambienti dal parquet chiaro e arredamento essenziale risultano ora, a sua immagine, più ariosi e più asettici di quando il suo predecessore li riempiva di portacenere sparsi un po’ ovunque.
Partiamo dal Green deal europeo: è convinta di riuscire a lanciarlo dopo che al summit di metà dicembre Varsavia si è sfilata dal piano?
«La Polonia parte da un livello di dipendenza dal carbone più alto e dunque deve percorrere una strada più lunga rispetto agli altri Paesi. Per questa ragione ci ha detto che ha bisogno di più tempo per capire come fare a raggiungere l’obiettivo, ma ha promesso che in estate si impegnerà con noi per la neutralità climatica entro il 2050. Comunque ritengo positivo che tutti noi, Polonia compresa, sappiamo che è arrivato il momento di impegnarci nella lotta al cambiamento climatico».
Però la conferenza mondiale sul clima di Madrid si è chiusa con un fallimento: l’Europa come può fare la differenza se è responsabile di meno del 10% delle emissioni planetarie?
«Mi creda: prima o poi tutto il mondo si dovrà allineare alla filosofia del Green deal. E allora noi dovremo farci trovare nel ruolo di pionieri, con un vantaggio competitivo sugli altri. Dovremo essere noi a imporci sul mercato mondiale, non a subirlo come troppe volte è successo in passato».
Qual è il messaggio sul Green deal che si sente di mandare all’opinione pubblica italiana?
«In Italia la drammatica portata del cambiamento climatico si avverte già, basta pensare a Venezia, ma bisogna capire che è anche una enorme opportunità per le piccole e medie imprese e non solo. Penso ai vostri agricoltori che hanno produzioni eccellenti e nel Green deal abbiamo la strategia “Farm to fork” che sostiene la produzione regionale di alta qualità. L’Italia è parte dell’Alleanza per creare una catena di produzione europea delle batterie elettriche e può fare molto sulle energie alternative».
Ha parlato di Venezia. Questa nuova Europa verde darà una mano a salvarla?
«L’acqua alta non è una novità, ma Venezia è un chiaro esempio su come l’intensità e la frequenza di fenomeni estremi stiano aumentando, è il sintono di una tragedia che oggi è solo all’inizio. In Europa abbiamo il Fondo di solidarietà dal quale l’Italia ha ricevuto fino ad ora 2,8 miliardi, ma si tratta di ri sposte di breve termine. Nel lungo periodo l’unica soluzione è la lotta al cambiamento climatico. Solo così possiamo combattere l’acqua alta».
A proposito del progetto europeo per supportare la produzione di batterie elettriche – e sottrarci alla dipendenza dalla Cina – Francia e Germania chiedono una riforma dell’Antitrust Ue per favorire la nascita di campioni europei. Condivide questa richiesta?
«La spina dorsale della nostra economia sono le piccole e medie imprese, ma è vero che in alcuni settori la competizione è ridotta a pochi soggetti globali.
Dunque sarà necessario rivedere le regole sulla concorrenza. In alcuni settori, quelli più globalizzati, la nostra analisi delle posizioni di mercato sarà in riferimento al livello mondiale per favorire l’emergere di competitors europei. In tutti gli altri settori, invece, continueremo ad analizzare il mercato europeo per tutelare l’interesse dei consumatori».
Come giudica la fusione Fca-Peugeot che crea proprio un grande polo europeo e punta a innovare sull’auto elettrica?
«Innanzitutto è una decisione delle due compagnie che vogliono dimostrare di saper innovare. La politica dovrebbe in generale limitarsi a fornire incentivi agli investimenti in innovazione e ricerca. Vedo sempre più spesso settori e aziende che decidono di investire in tecnologie pulite perché capiscono che per il loro business altrimenti non ci sarebbe futuro».
Lei si è presentata come la presidente “verde” della Commissione, eppure i Verdi non sono in maggioranza mentre le hanno votato la fiducia i partiti al governo in Polonia e negli altri paesi dell’Est che hanno grandi problemi con l’ambiente: quale sarebbe allora la sua maggioranza politica ideale?
«La mia maggioranza ideale è quella pro europea. Rifiuto l’appoggio solo dei partiti manifestamente anti europei.
Ma il Parlamento di Strasburgo decide progetto per progetto, non ci sono maggioranza e opposizione come nelle assemblee nazionali. A luglio ho iniziato con numeri stretti, poi si sono allargati e stabilizzati con la fiducia di novembre e apprezzo che i Verdi da un “no” al primo voto siano passati all’astensione.
Caso per caso troveremo una maggioranza agendo sempre nell’interesse europeo».
Alcuni ritengono che la lotta all’inquinamento sia positiva per l’ambiente, ma negativa per il consenso. Il negazionismo di Trump ne sarebbe un esempio.
«Penso che le cose stiano esattamente all’opposto.
L’esperienza quotidiana delle persone dimostra che la situazione sta peggiorando tra incendi, inondazioni, siccità e desertificazione. Non a caso molte città statunitensi e la California condividono gli obiettivi degli accordi di Parigi sul clima».
Lei ha definito la sua una “Commissione geopolitica”. A inizio 2020 incontrerà Donald Trump: quali sono i suoi obiettivi nelle relazioni con gli Stati Uniti?
«Sarà un incontro, che stiamo pianificando per gennaio o febbraio, per conoscerci e sarà saggio non porre sul tavolo solo le questioni che ci separano, come il commercio, ma anche quelle che ci uniscono come business, cultura, ricerca e università, nonché l’amicizia tra i nostri popoli».
Pensa sia possibile salvare l’accordo sul nucleare iraniano?
«È sempre più difficile, per riuscirci è necessario che anche l’Iran tenga fede all’accordo, circostanza in crescente pericolo».
Nel 2020 ci saranno due summit Ue-Cina: riuscirete a chiudere un accordo sugli investimenti europei nel Dragone?
«La Cina è molto assertiva e d’altra parte ci sono temi sui quali noi siamo duri, come diritti umani e cybersicurezza. Ma ci sono anche argomenti in cui abbiamo un interesse in comune, come il clima, sul quale dialogheremo».
In Libia parlano le armi e paesi come Russia e Turchia rischiano di spartirsi il Paese: al di là degli appelli al buon senso, come intende dispiegare il ruolo geopolitico di Bruxelles a Tripoli?
«Deve essere chiaro che in Libia non può esserci una soluzione militare. La Libia soffre per la presenza di attori esterni che provano a influenzarne il futuro.
La Ue è compatta nel sostenere il processo di pace condotto dalle Nazioni Unite e nel dire che l’unica soluzione possibile passa per un accordo diplomatico e politico tra tutti gli attori libici».
Però questo approccio, in Siria, non ha funzionato. Si rischia uno scenario siriano anche in Libia?
«Le guerre in Siria ed Iraq non sono iniziate per colpa dell’Europa. In Iraq la coalizione contro l’Isis ha stabilizzato la situazione mentre l’opera europea di rafforzamento dei curdi e del governo di Bagdad, così come la ricostruzione finanziata da Ue e Onu, hanno permesso una pace duratura.
Questi processi non sono mai lineari».
Pensa che oggi potremmo farlo in Libia?
«No, perché in questo momento ci sono troppi attori che cercano di spaccare il Paese con le armi.
Riteniamo che una soluzione per un futuro di pace duratura in Libia possa meglio realizzarsi nell’ambito del processo di Berlino delle Nazioni Unite nel quale anche l’Unione Europea è coinvolta».
I migranti sono un tema connesso alla Libia: quale sarà la filosofia del nuovo Patto sulle migrazioni che proporrete nei prossimi mesi?
«L’Italia negli ultimi anni ha fatto un lavoro straordinario e ora dobbiamo essere più solidali.
Dobbiamo uscire dallo stallo con un approccio comprensivo basato su misure su cui già c’è consenso tra governi e altre rinnovate per trovare un accordo. Porteremo nuove idee sul trattato di Dublino e sull’asilo. Servono confini esterni forti, un approccio comune sull’asilo all’interno del Continente e forti investimenti esterni nei paesi di origine dei migranti. Tutti i governi europei dovranno contribuire per avere una vera condivisione degli oneri. Inoltre dovremo lavorare a vie legali per chi vuol venire a lavorare in Europa».
Come contribuirete alla politica dei rimpatri?
«Daremo sempre protezione a chi ne ha bisogno, chi invece non ne ha diritto dovrà tornare a casa propria. Investire insieme a governi e Unione africana nei paesi di origine per dare prospettive e lavoro ai giovani significa anche investire nella buona governance. In altre parole: le autorità locali che ricevono i nostri finanziamenti sono responsabili e si dovranno prendere cura dei loro cittadini che verranno rimpatriati».