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 2019  dicembre 24 Martedì calendario

1. VITA, OPERE E CAZZATE DI CHECCO ZALONE: UN COMICO SCORRETTO O UN GRAN PARACULO? 2. “RIVENDICO IL DIRITTO DI NON PIACERE E DI NON RISULTARE DIVERTENTE. ANCHE SE DEVO DIRE CHE ESSERE DIFESO (DA MELONI A SALVINI, NDR) DA CHI AVRESTI VOLUTO ATTACCARE È DIVERTENTENTISSIMO. IL PROBLEMA È LA POVERTÀ DEL DIBATTITO. IL DITINO MORALIZZANTE SEMPRE ALZATO A DIRE “QUESTO SI PUÒ O QUESTO NON SI PUÒ DIRE”. VIVIAMO NELL’ASSURDO” 2. IO E SORDI: “CON LE DOVUTE PROPORZIONI, INTERPRETIAMO PERSONAGGI CHE RIESCONO A FARTI IMMEDESIMARE ANCHE QUANDO SONO MOSTRUOSI, CINICI O SERVILI. SONO GREVI, SPESSO ORRENDI, ETICAMENTE DISCUTIBILI, MA SONO ESATTAMENTE COME SIAMO ANCHE NOI” 3. ''LA PIÙ GRANDE GIOIA? AVER AVUTO UNA CANZONE DAL MIO MITO, FRANCESCO DE GREGORI”

«Signor Malcom, mi dica subito, lei ha parentele con quel tale X che negli anni Sessanta difendeva i diritti degli afroamericani?». «Assolutamente no».

«Bene, si accomodi e cominci pure con le domande». Chitarra. Voce. Checco Zalone.

All’uscita del supermercato ti ho incontrato (“il carrello lo porto io”) / Al distributore di benzina (“metto io, metto io”) monetina / Al semaforo sul parabrezza / C’è una mano nera con la pezza / E ritrovo quel tuo sguardo malandrino che mi dici: “C’ha due euro per panino!”

Genesi: «Esco di prima mattina e lo incontro sulla porta. Mi chiede una moneta, gliela do. Due ore dopo lo rivedo in un’altra zona. Mi domanda un euro, glielo allungo. Ormai si è fatta sera. A un semaforo, qualcuno si offre di lavarmi il vetro della macchina. Abbasso il finestrino, è ancora lui. Lo guardo. Mi guarda. Si rende conto, mi rendo conto. Scoppia a ridere, rido anch’io. Diventiamo amici. A fine giornata penso di scriverci una canzone, poi accantono l’idea fino a quando, in una giornata africana particolarmente deprimente, mentre con i miei amici Antonio, Giuseppe e Maurizio cerco di ingannare il tempo tra una pausa e l’altra del set, mi torna in mente quella storia e scrivo Immigrato».

Ancora un ciuffo di giorni e Checco Zalone, dopo essere stato un’assenza, un’attesa e un pretesto, sarà una statistica. Su Tolo Tolo, sull’esegesi delle intenzioni e sulla pioggia di interpreti del pensiero di Luca Medici, si aprirà l’ombrello dei numeri. Al protagonista, il dibattito preventivo sul suo film sembra vuoto come la dispensa del suo residence: «Un caffè glielo faccio, ma non ho lo zucchero». Ha girato il suo primo film: «Due mesi di sopralluoghi, quasi 20 settimane di riprese tra Malta, Kenia, Marocco e Belgio, Tolo Tolo è stato faticoso. Tanto. Troppo».

Ha affrontato «un tema che era nell’aria e a cui tra un proclama di Salvini e uno sbarco a Lampedusa pensavo da anni. Cercavo una storia da ambientare in Italia fino a quando Paolo Virzì non mi ha dato l’idea di spostare il fuoco e di ambientarlo al di là del Mediterraneo».

Si aspetterebbe di più della conta un po’ meccanica dei milioni di euro e di una serie di reazioni a Immigrato «che mi hanno annoiato se non imbarazzato. Siamo messi male. Rivendico il diritto di non piacere e di non risultare divertente. Anche se devo dire che essere difeso da chi avresti voluto attaccare è divertententissimo». Chi l’ha attaccata però lo ha fatto con durezza. «Ma lei pensa che non sapessi cosa andavo a scatenare?».

Lo sapeva? «Ma no, lo dico per dare soddisfazione a tutti quelli che hanno parlato di geniale operazione di marketing. Di strategia. Di calcolo. Ma dove? Ma quando?».

L’associazione Baobab ha parlato di banale spazzatura per il mercato delle festività. «Direi che non dobbiamo preoccuparci. Magari chi ha scritto queste cose non ha visto integralmente il video o nutre semplice antipatia nei miei confronti. Il problema è la povertà del dibattito. Il ditino moralizzante sempre alzato a dire “questo si può o questo non si può dire”. Il nascere pretestuoso di polemiche inutili e modestissime».

Che impressione le fanno? «La soglia della correttezza pretesa e della scorrettezza denunciata dal tribunale degli opinionisti si è vertiginosamente abbassata e in pochissimo tempo. Se si guarda al cinema degli anni ’70 lo si capisce immediatamente. Viviamo nell’assurdo. Siamo a un passo dal corso di laurea in politicamente corretto».

Lei la laurea la prese. «In Giurisprudenza, ma non feci un solo giorno di pratica. Mentre mia zia Lina, vicequestore di Polizia in appoggio alla Buoncostume, la stessa che anni prima mi aveva spedito al Cirillo di Bari, un mestissimo semiconvitto per soli maschi, si occupava di trovarmi uno studio in cui esercitarmi gratis come legale, arrivò la chiamata di Zelig. Dopo il jazz, il piano bar e gli spettacolini, feci un provino a Milano. Una gag che a Bari, quando la mettevo in scena, lasciava per lo più indifferenti: “Un bacione alla casa circondariale di Trani con gli auguri di una presta libertà”. Fu un trionfo, il punto di svolta dopo una lunga notte».

Com’era la lunga notte che precedette Zelig? «Come dice Daniele Silvestri, più in basso di così non si poteva andare. Il picco dell’umiliazione fu quando mi chiesero di suonare un pianoforte vestito da Babbo Natale. Comunque lo picchiassi o per quanto lo scuotessi con delicatezza, quel piano scassato non restituiva mai una nota tenue. Io sul palco, senza renne, vestito di rosso e di bianco per 50 euro di ingaggio e sotto di me il pubblico inferocito che mi chiedeva di fare meno rumore, di non disturbare la festa».

Fa impressione sentirlo dire dal campione d’incassi del cinema italiano. «Le ho provate tutte. E non mi sono arreso. Sono stato fortunato, anzi fortunatissimo perché senza una buonissima dose di culo non vai da nessuna parte, ma quando ho avuto un’occasione ho dimostrato di sapermela meritare. Mi mandavano in onda, funzionavo, facevo ridere».

Milano le diede un’occasione. «Il primo migrante ero io. Un migrante disperato come tutti i migranti. Per andare in trasmissione viaggiavo sulla tratta ferroviaria Bari-Milano con la stessa frequenza di mio nonno Pasquale, capostazione, e in tasca non avevo una lira. Parlavo per ore al telefono con Mariangela, con la quale sto da 15 anni perché lo saprà, all’inizio tra fidanzati non si fa altro che parlare e dormivo a casa di Nicola, un mio amico dell’università che vinse il concorso per entrare in Polizia Penitenziaria e da buon ragazzo del Sud comprò subito una casa a Milano. Periferia nord. Fermata Dergano. In pieno luglio, con un caldo sconvolgente, andavo a fare queste prove in viale Monza, combattevo con le zanzare e poi tornavo a Capurso. Una volta in treno incontro uno di Noicattaro».

Un suo conterraneo. «Lombrosianamente, una faccia da tagliagole. Attacca discorso e mi comincia a raccontare una storia pazzesca: era stato in galera e si era trasferito in Germania perché in Italia non poteva più lavorare per aver rubato un motorino. Si immagini la scena: noi due in piena notte in un vagone deserto. Lui, enorme e poco raccomandabile, mi racconta nei minimi particolari il suo arresto. Io, piccolo e magro, visibilmente terrorizzato penso: “adesso questo, i pochi soldi che ho in tasca, me li rapina fino all’ultimo centesimo”».

E accadde? «Macché. A un certo punto si commuove, gli si riga il volto di lacrime e mi dice: “L’altro giorno mio figlio mi dice che vuole un motorino. E io sai che ho fatto? Gliel’ho rubato. Così almeno non si sporca la fedina penale pure lui”.  Rimango zitto e intanto penso: “Qui c’è un film, qui c’è l’Italia”».

Lei quando ha capito di aver un potenziale? «Quando ho inseguito i miei sogni. C’è stata un’epoca abbastanza buia in cui mi sembrava che non esistesse niente di più importante che avere un’indipendenza economica. Volevo qualche euro in tasca, una macchina tutta mia, un orizzonte sereno. Volevo il posto fisso. Mi misi in testa che dovevo fare il rappresentante e mio padre, venditore di medicine, mi trovò un posto di lavoro per sostituire quello dell’Amuchina che andava in pensione per raggiunti limiti d’età. Fui assunto. Avevo 23 anni. Con il colera, in Puglia, il prodotto si diffuse in maniera capillare. Lo usavano per lavare la verdura, pulirsi i piedi, farsi il bidet, la barba e forse anche al posto dell’acqua minerale».

Quindi tutto bene? «Qual era il problema? Che in questo listino di prodotti da vendere che dovevamo proporre ai farmacisti, oltre al nostro Leo Messi, al nostro gioiello, al nostro vanto, l’Amuchina, c’erano una serie di cadaveri, noi rappresentanti li chiamavamo così, che rasentavano l’invendibilità. Il punto di rottura ci fu sui cerotti».

Racconti. «I calciatori indossano cerotti per respirare meglio e per un paio di mesi, vedendoli in tv, più di un calciofilo volle imitarli. Tre settimane di follia, ordini alle stelle, pallottolieri che giravano. Poi, all’improvviso, al ventunesimo giorno, dei cerotti non volle saperne più nessuno e dei cerotti a quel punto avrei avuto bisogno io. I farmacisti erano inferociti e arrogantissimi: “Riprenditi questa monnezza e prova a venderla, altrimenti non ti fare più vedere”. Non solo non te li pagavano, ma avevo l’auto che traboccava di casse. A un certo punto i cassonetti li aprii davvero, mi liberai della merce e per un periodo andai proprio in crisi. Ero depresso. Mi sarebbe piaciuto suonare e invece mi rendevo conto che stavo buttando la mia vita. Tre o quattro mesi tremendi con lo spettro del servizio militare a incombere».

E cosa fece? «Prima tentai di entrare in Polizia. L’esame prevedeva diritto penale, civile e amministrativo. Sui banchi, tutti quelli che facevano il concorso in Magistratura e affrontavano quel concorso in maniera sussidiaria. Avevo perso in partenza. Se l’avessi passato sarei diventato ispettore, mamma mia, poi dici che Gesù non esiste». (ride)

E poi? «Dopo il liceo, a Capurso, bisognava trovarsi un lavoro. E io un lavoro non ce l’avevo più. Così mi ributtai a studiare, chiusi la partita Iva e pensai a come rimediare alle mie voragini fiscali con lo Stato. Erano cazzi. Ma cazzi veri. Dovevo quasi 20.000 euro all’Inps, una cifra per me impensabile. Zelig, da quel punto di vista, era vitale, ma non avevo più un soldo in tasca, neanche per il treno. Un giorno di luglio, più caldo e cattivo di altri, andai dal produttore e dissi che non potevo più fare avanti e indietro tra Bari e Milano per mancanza di fondi e quello senza eccepire mi firmò un assegno. La cifra, 5.000 euro, mi diede le vertigini. Chi cazzo li aveva mai visti quei soldi tutti insieme?».

Le cose si misero a posto pian piano? «Grazie alla tv arrivarono le convention. Un miracolo in tempi ancora non straziati dalla crisi. Grandi aziende, gente disinteressata in platea, denaro facile. Ne facevo anche due o tre a settimana. Adesso me la tiro e non le faccio più, ma non so quanto sia una buona idea». (sorride)

Adesso fa il regista. «Io la parola regista non riesco neanche a ripeterla, mi intimidisce, però a stare fuori scena, quando capitava durante la lavorazione di Tolo Tolo, mi sono divertito molto. Meno divertente è il lato oscuro del mestiere. Quando mi chiedono cosa ne pensi della color correction o chi devo ringraziare sui titoli di coda».

Lo rifarà? «Temo di sì. È come una droga. Più ci ripenso e più ci voglio riprovare. Tra un po’ però, non domani mattina. Tanto, che sia tra un anno, tre o cinque, la mia condizione di base non cambia».

Quale condizione? «Quella di chi ha fatto fare soldi e deve farne fare sempre di più».

Al primo gennaio, giorno dell’uscita di Tolo Tolo mancano pochi giorni. Prova ansia? «Provo ansia prima, dopo e durante un film. Sono nato ansioso, non dormo da sei mesi, devo essere all’altezza delle aspettative. Immagino che se non fossi ansioso però sarei depresso».

L’ansia restituisce solo ansia? «Da un certo punto di vista è la mia forza. Mi rendo conto che i momenti in cui avrei voluto morire e mi chiedevo “come cazzo faccio adesso?” sono quelli che hanno fatto scaturire le scene più belle del film. Il motore del guizzo è sempre la disperazione».

Sinossi di Tolo Tolo. «È la storia di un italiano deluso dalla madre patria. Di un individuo che ha fatto una serie di investimenti sbagliati e sostiene di essere un sognatore. Posso usare una parolaccia?».

Prego. «Se mi passa questo termine osceno, messaggio, il messaggio è proprio questo: Tutti abbiamo diritto di sognare. Il mio sognatore fugge dall’Italia, si trasferisce in Africa e una volta lì assiste allo scoppio di una guerra civile. Arrivano le milizie, una sorta di Isis o di Boko Haram, ed è costretto a tornare indietro, solo che non può farlo perché in Italia è inseguito dai creditori. Si ritrova quindi  nella stessa situazione dei migranti: non c’è nessuno che lo voglia. Se non fosse stato un titolo troppo colto, il film si sarebbe potuto chiamare Il migrante bianco».

Ma il suo protagonista è un figlio di puttana? «Tutt’altro. Al limite un egoista, una testa di cazzo, un uomo incapace di vedere al di là del proprio ombelico. È uno che alla guerra antepone sempre i suoi problemi. C’è una scena di cui vado molto fiero: il suo numero di telefono è arrivato in diretta tv a Spinazzola, il suo paese, e mentre è in corso un bombardamento gli telefonano tutti. A lui delle bombe che piovono dal cielo non importa nulla, è molto più preso dalle ex mogli, dal commercialista e dai parenti che dal pericolo. Quando si rivolge agli altri, agli africani, con l’aria di saperla lunga fa loro un discorso a cuore aperto: “Sono questi i veri cazzi della vita, questa è la vera guerra”. È la metafora del nostro egoismo congenito visto comicamente, senza però il ditino alzato della morale moralizzante. O almeno spero».

A cosa aspira il suo protagonista? «È un fuggiasco, uno che non ha più un luogo, uno che nonostante si trovi nei camion dei migranti o nelle navi con altri senza terra e senza patria, non sogna di tornare a Itaca. È cresciuto in mezzo all’amoralità. La madre gli dice: “Sei stato dato per disperso, hai la grande possibilità di estinguerti, se sparisci estingui tutti i tuoi debiti” e lui, in mezzo a un casino gigantesco con il suo amico Oumar, un appassionato di cinema italiano che sogna di andare a Cinecittà nonostante venga quotidianamente dissuaso da me “guarda che non c’è lavoro, non c’è una lira, non c’è una prospettiva”, non pensa al contesto drammatico che lo circonda, ma aspira all’unica salvezza del regime fiscale che troverebbe in Liechtenstein, dove c’è un suo cugino che gli darebbe riparo. Da un certo punto di vista, il mio personaggio è un candido».

Come il Candide di Voltaire? «Ah, l’ha già scritto lui Tolo Tolo?». (ride)

In cos’altro spera? «Che si capisca il paradosso. La poesia. Il ribaltamento dello schema. Non solo il valore del film o il fatto che ci abbia buttato dentro tanto sudore».

La più grande soddisfazione a film concluso? «Aver avuto una canzone dal mio mito, Francesco De Gregori. Viva l’Italia è in una delle ultime scene del film e rispetto a quel che si vede sullo schermo è quasi antifrastica.  Temevo la sua reazione. Quando mi ha telefonato ero quasi certo che mi avrebbe detto “non puoi usarla”. Risponde con la stessa fiducia dei condannati e, incredulo, lo ascolto: “Finalmente, bravo Checco, è bellissima”. Sono momenti di impercettibile felicità». 

Per la prima volta dopo quattro film insieme non è diretto da Gennaro Nunziante. «Ci siamo allontanati come forse capita alle persone che stanno troppo tempo insieme e magari c’è anche un po’ di imbarazzo, ma io so che ci vogliamo bene. Non c’è nessun rancore da parte mia come credo non ci sia da parte sua».

È stato un set faticoso diceva. «Mi sono sentito un po’ come Terry Gilliam alle prese con il suo Don Chisciotte, con un film che sulla carta non finiva mai. Il fato si è accanito contro la produzione, abbiamo avuto sfighe inenarrabili, rallentamenti, ritardi. La nave presa per girare alcune scene ha subìto un controllo ed è stata bloccata. C’erano cento persone ferme ad attenderla. Era surreale, una storia nella storia, i migranti nei migranti. I mètamigranti. Poi il bambino».

Il bambino? «C’è un bambino che mi segue nel film, che mi si affeziona, che mi prende un po’ per un secondo padre. Per una questione burocratica non aveva il visto per venire in Italia. Praticamente un’iperbole. Il Kenia non ce lo mandava con Salvini ministro dell’Interno in carica».

Lei ha detto: «Le cose semplici non mi riescono». Soffre a inventare? «Non è sofferenza, è lavoro. L’improvvisazione esiste, ma deve muoversi su basi ben solide. Scrivere film come i miei, comici e apparentemente semplici, non è affatto facile. A una cosa penso e ripenso migliaia di volte. Mi chiedo se stia in piedi, se funzioni, se faccia ridere davvero. Poi, se serve, improvviso. La battuta, quando è scritta, perde già il 50 per cento della propria efficacia».

Dove ha imparato a ridere e a far ridere? «A casa. Simpatici i miei, simpatici i parenti, simpatico il comico della famiglia, zio Nino. È morto due anni fa e a quest’uomo che andava fiero di aver lavorato pochissimo nella vita, ero molto affezionato».

Come faceva a farsi volere bene? «Aveva – sia detto bonariamente – una clamorosa faccia da culo. Si era specializzato in epitaffi e quando in famiglia moriva qualcuno e tutti, più di qualcuno anche in maniera ipocrita, si stracciavano le vesti davanti al feretro, Nino entrava in scena a modo suo. Ti gelava. Diceva delle cose tremende e irripetibili. Indifferente alla bara e al lutto, Nino ribaltava il quadro. Spesso ingiuriava il defunto e io che avevo 10 anni ridevo come un pazzo. Forse il gusto, il senso, direi il dovere di disturbare con una nota dissonante mi è venuto da lì».

Una certa passione per i suoni l’ha sempre avuta. «Mio padre suonava il basso con Gli amici del Sud. Dodici dopolavoristi scatenati tra le balere e le sagre di paese. Suonava mio nonno che mi ha lasciato in eredità il Beckstein, un pianoforte dell’800 che – mortacci sua – ha i tasti in avorio il cui acquisto oggi è vietato. I tasti sono rovinati, non posso cambiarli e quindi è inutilizzabile. Suonava anche il fratello di mio nonno, vincitore di un concorso, poi riparato in America ai tempi di Mussolini. E naturalmente suonavo io imitando Celentano, mio idolo assoluto, davanti allo specchio».

Con 24 mila baci / felici corrono le ore. «Con i miei amici di allora e direi anche di adesso facevamo casino tutto il giorno. Le faccio vedere una cosa». (Checco armeggia con il telefono, escono video antichi in cui lui ha tutti i capelli e anima scherzi telefonici, recite collettive, imitazioni in gita scolastica)

Sembrate una banda. «Con Beppe De Bellis che adesso, poveraccio, fa il direttore di Sky Tg 24 e non vive più e Rocco Chiodo, un mio amico negato per la fica ma con un cognome da film porno, facevamo scherzi telefonici a metà tra il lazzo ingenuo e l’insostenibile pesantezza. Rocco era un genio dell’elettronica. Con mezzi poverissimi era in grado di inventare sistemi audiovisivi che per noi, una generazione cresciuta con Holly e Benji e Bim Bum Bam, sembravano provenire direttamente dal futuro e ci facevano lo stesso effetto dell’Hal 9000 di Kubrick in 2001: Odissea nello spazio».

Dal suo luogo d’origine lei ha tratto molti spunti. «Osservavo il contesto, studiavo e poi rielaboravo. Che si trattasse del prete di Capurso, Don Franco che teneva omelie più teatrali di un testo di Goldoni, o del mio professore, fascistissimo, di filosofia, cercavo i caratteri. Le peculiarità. Le stranezze. Da meridionale mettevo in burla i tipici vizi dei miei conterranei esagerando volutamente. Ce n’era per chi elevava il furto a seconda religione di Stato e per chi giudicava sacrilego, offensivo delle tradizioni familiari, superare la terza media». 

Con Pietro Valsecchi, il suo produttore, come si è conosciuto? «Premessa: se non avessi detto no a Leonardo Pieraccioni forse non avrei mai lavorato con Valsecchi. Leonardo e Giovanni Veronesi, lo sceneggiatore, mi avevano scelto per Io e Marilyn. Ero arrivato da Roma con mio fratello, che è identico a me, e loro pensavano che Checco Zalone fosse lui. Uno fa l’attrezzista per il cinema e l’altro lo steward per Air Norwegian, le interessa?».

Vorrei tornare a Pieraccioni e a Veronesi. «Arriviamo da loro in macchina da Bari con una fame pazzesca,  mi genufletto, dico subito di sì preventivamente al ruolo che mi offrono e poi, siccome con la pasta in bianco che avevano preparato soffro i morsi della fame, quando mi chiedono cosa faccia dopo il nostro incontro rispondo: “vado a pranzo”. Risate, accordo fatto, felicità reciproca».

Poi? «Poi con la sua voce cavernosa a 5 Megahertz, nella mia vita, una settimana dopo, arriva proprio lui, Pietro Valsecchi. Io non sapevo chi fosse. Al telefono capisco soltanto due parole: Cortina e Aereo. Chiamo Gennaro Nunziante e gli dico: “Mi ha cercato un certo Valsecchi”. Sento un silenzio dall’altra parte, poi un gorgoglìo che somiglia a un’esultanza. “Ma sai chi è Valsecchi? Dobbiamo portargli subito una storia”. Così in pochi giorni tiriamo giù il canovaccio di Cado dalle Nubi e lo raggiungiamo in montagna».

Lei si deve liberare dall’impegno con Pieraccioni. «Fu fantastico. Mi disse: “Ti è accaduta una cosa che è capitata anche a me e che non ti succederà mai più. Vai, cogli l’attimo e non preoccuparti”. A Cortina andai. Pietro versava vino e grattuggiava tartufo, che detesto, come fossero coriandoli o soldi del Monòpoli. Feci finta di niente, stetti male, vomitai fino all’alba e tenni duro. Il resto è una lunga storia. Sono tutti i miei film, fino a Tolo Tolo».

Avete mai litigato? «In continuazione. Ci urliamo di tutto e poi facciamo pace. Magari non ci parliamo per ventiquattro ore, ma non è mai niente di serio. D’altra parte mi presenti qualcuno che non ha mai litigato con Valsecchi. È un grandissimo produttore. Ha fiuto. Entusiasmo. E poi ha un carattere».

Quanta gente ha conosciuto con un carattere? «Non tanta. Uno era Ettore Scola. Lo conobbi al Festival di Bari dove era presidente e all’inizio feci l’orgoglioso. Mi chiamò un amico: “Domani c’è una lezione di cinema davanti al pubblico del Petruzzelli, ti andrebbe di venire?”. Dico di sì, ma vengo a sapere che al mio posto era prevista Liliana Cavani che all’ultimo istante non aveva potuto presenziare. Ci rimango male: “Ma allora non vogliono me, sto andando a tappare i buchi di Liliana che rinuncia, non mi va”. Chiamo il mio amico e gli comunico bruscamente di cercarsi un altro al mio posto. Passa poco tempo e mi telefona Ettore: “Vieni subito qui, non fare  l’orgoglioso, non fare la testa di cazzo”. Abbasso la testa e ubbidisco. Scola mi abbraccia: “Porto una croce, lo sai? Ho una nipote che è fan di quei film di merda che fai tu”. (ride) Ricordando il loro Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? in Tolo Tolo omaggio proprio Scola e Sordi».

Cosa la lega ad Alberto Sordi? «Con le dovute proporzioni, interpretiamo personaggi che riescono a farti immedesimare anche quando sono mostruosi, cinici o servili. Non li giudichiamo e non ci estraniamo, ma restituiamo loro un’umanità in cui tutti possano rispecchiarsi. Sono grevi, spesso orrendi, eticamente discutibili, ma sono esattamente come siamo anche noi, almeno una volta al giorno».

Negli ultimi dieci anni lei ha concesso sì e no dieci interviste. «In un mondo in cui tutti sentono il bisogno e l’urgenza di dare la propria opinione, io mi rendo conto che la mia non è interessante. Non so cosa dire. Che devo dire? Ho provato ad approcciarmi anche a Twitter, ma poi sono tornato indietro. “Madonna, ma perché devo scrivere ’sta cazzata? Ma è utile? È edificante? Interessa?”».

Cosa si è risposto. «Di no. E ho deciso di tacere».