il Giornale, 23 dicembre 2019
Intervista a Cristina Nutrizio, parla di suo padre Nino
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Nel libro Ultima Edizione, che ripercorre l’epopea del quotidiano La Notte, c’è una foto in bianco e nero dove Cristina stringe la mano di Nino. A prima vista sembra il saluto, un po’ formale, fra un professore e una sua allieva. In realtà si tratta di padre e figlia: lui è Nino Nutrizio, lei è la figlia Cristina. Ingrandendo l’immagine con la lente del cuore, capisci che tra loro c’era un’intesa speciale. Lo comprendi da un bagliore complice, luminoso come può essere solo la scintillanza tra padre e figlia.
Nino Nutrizio, nato a Traù (oggi è Trogir, in Croazia) il 10 febbraio 1911, è stato uno tra i più grandi giornalisti del nostro Paese. Ancora oggi, se vuoi fare un complimento a un cronista, puoi dirgli: «Sembri uscito dalla scuola di Nino Nutrizio». Sì, «scuola». Medaglia al valore giornalistico che in Italia può vantare solo un altro «monumento»: Indro Montanelli. Il quale infatti era un estimatore di Nutrizio, come amico sincero di Nino era pure Enzo Biagi, il quale alla «scuola» di Nino mosse i primi passi della carriera.
Nutrizio (che guidò il quotidiano del pomeriggio La Notte per 27 anni, dal 1952 al 1979) non era uno che si compiaceva della sua «bella scrittura». Non si sentiva né un «Ronaldo» né un «Messi» della penna, pur essendo un fuoriclasse alla «Meazza». E se Peppìn insegnò il calcio sotto la Madonnina, Nino insegnò ai milanesi il piacere delle «notizie choc», quelle che leggi da cima a fondo, senza annoiarti. Come purtroppo accade sfogliando i giornali di oggi.
Cristina Nutrizio, 60 anni, autrice televisiva e scrittrice, dal padre ha ereditato la fame per la curiosità e il gusto dello stile. Nino è scomparso nel 1988, ma tra le stanze della casa milanese della figlia risuona l’eco di un uomo che ha rivoluzionato il modo di concepire i quotidiani.
Cinque aggettivi per descrivere suo padre.
«Roccioso, timido, autorevole, autoritario, fragile».
Fragile? Eppure tutti lo descrivono come un duro.
«Era una fragilità che papà aveva imparato a camuffare. A controllare. Apparentemente poteva sembrare poco empatico, invece era di una sensibilità unica».
Una sensibilità coltivata tra gli estremi opposti di una vita da romanzo.
«L’esistenza di papà è stata entusiasmante, ma pure punteggiata da drammatiche sofferenze».
I Nutrizio erano una famiglia borghese di origine dalmata che fu costretta dai comunisti a trasferirsi a Trieste.
«I titini ci depredarono di ogni bene. Costringendoci a una fuga angosciante su una barca di fortuna. Ma per papà il peggio doveva venire...».
E «il peggio» quando arrivò?
«Il 28 marzo 1941».
Cosa accadde quel giorno?
«Papà era a bordo dell’incrociatore Pola, dove si era imbarcato come corrispondente di guerra per Il Popolo d’Italia. Un bombardamento affondò il Pola e lui, dopo otto ore in mare aggrappato a una trave, venne recuperato da un nave inglese. Fu buttato nella stiva insieme a decine di cadaveri. Credevano che anche lui fosse ormai morto».
Invece era vivo, sommerso da corpi senza vita.
«Un incubo che lo segnò. Ma da cui riuscì a sollevarsi. E le sue disavventure non erano ancore finite».
Lo attendevano sette anni (dal 1941 al 1947) di campo di prigionia.
«Prima in Egitto. Poi in India. Una Odissea che papà riuscì a trasformare in una opportunità».
«Opportunità» in che senso?
«Nel campo di prigionia di Yol imparò perfettamente l’inglese, divenne l’allenatore della squadra di calcio del campo e, soprattutto, iniziò a studiare a fondo i segreti dei tabloid britannici, gli unici giornali che arrivavano nel campo».
L’«attivismo» non piacque agli ufficiali fascisti internati con lui.
«Ricevette una lettera di biasimo che lo invitava ad avere un comportamento più distaccato col nemico».
Ma sport e giornalismo erano due amori che non potevano essere traditi in nome della fedeltà al fascismo.
«Mio padre era un uomo di destra. I comunisti avevano costretto la nostra famiglia ad abbandonare la propria terra. La sua fu una scelta ideologicamente quasi obbligata. Rimase coerente senza però mai scadere nel fanatismo. Un uomo libero. Con due soli padroni: la passione per il calcio e quella per il giornalismo».
Due amori che si sono incrociate nel destino di suo padre fin da quando era ancora giovane. E fresco di non ammissione all’esame di maturità...
«Questa è una storia davvero singolare».
Ce la racconti.
«Papà non fu ammesso all’esame di maturità. Ma non per ragioni legate al profitto, ma a causa dell’insufficienza in condotta».
Cosa aveva combinato?
«Aveva risposto male a una insegnante. La punizione fu esemplare, nonostante avesse ottimi voti in tutte le materie: niente esame di maturità per ragioni disciplinari. Un paradosso per chi, da adulto, avrebbe fatto della disciplina una delle sue prerogative».
I genitori di Nino ci rimasero male?
«Malissimo. La famiglia era in ristrettezze economiche e rinviare di un anno il diploma, e con esso la possibilità di lavorare portare a casa i primi guadagni, rappresentava un problema grave».
E allora cosa successe?
«Papà, per raggranellare qualche soldo, decise di allenare a Trieste una squadra di calcio di ragazzini. In poco tempo divenne il beniamino della squadra a cui i giovani calciatori indirizzavano lettere e bigliettini».
Un materiale giornalisticamente interessante.
«Infatti lui ne ricavò un reportage che poi, quasi per gioco, spedì al Il Secolo XIX di Genova».
Che fine fece quel reportage?
«Il giornale lo pubblicò in prima pagina e il direttore de Il Secolo XIX gli offrì l’assunzione».
Da qui il secondo trasferimento: da Trieste a Genova.
«Si portò dietro anche la madre che nel frattempo era rimasta vedova. L’uomo di famiglia era diventato lui».
Anni sereni, interrotti dall’apocalisse della guerra.
«Un periodo lungo, durante il quale papà ne ha passate di tutti i colori. Però senza mai scoraggiarsi. Sempre a testa alta. Da uomo di carattere, qual è sempre rimasto».
Rientrato in Italia, nell’impossibilità di riprendere la professione giornalista a causa delle leggi sull’epurazione, venne nominato allenatore dell’Inter insieme a Giuseppe Meazza.
«Un ruolo che gli dette popolarità. Ma il vero boom ci fu con la nascita de La Notte».
L’industriale Carlo Pesenti, nel 1952, affidò a Nino il compito di ideare un foglio, più che altro di propaganda elettorale, in vista delle elezioni del ’53.
«Pesenti pensava che un giornalista sportivo non avrebbe interferito con la linea politica per cui il giornale era stato fondato».
Invece accadde un miracolo.
«Quello che doveva essere un giornale «a tempo» si trasformò in un successo editoriale senza precedenti. Con tirature che, nel periodo di massima diffusione, superarono le 350 mila copie. La Notte non solo era seguitissimo a Milano e in Lombardia, ma divenne un giornale nazionale, venduto perfino in Sicilia e Sardegna»
E questo grazie alle invenzioni di suo padre.
«Papà era una fucina di idee. Lanciò per primo la Pagina del cinema con le cinque stellette per le recensioni della critica e i pallini per il gradimento degli spettatori. Un modello che è stato copiato da tutti i giornali del mondo».
La Notte aveva più edizioni pomeridiane, una sorta di «copertura totale», antesignana dell’epoca-internet.
«E così. Mio padre non staccava mai: si occupava di tutto, supervisionando ogni aspetto del giornale. Dalla caccia agli scoop, alla titolazione e all’impaginazione. Fino a sporcarsi le mani nel reparto rotative».
Detestava le raccomandazioni. In questo era molto poco italiano...
«Amava il merito e sapeva riconoscere il talento. Quando un ragazzo di bottega era bravo, lo trattava bruscamente per insegnargli che avrebbe dovuto sacrificarsi. Ma poi, i giovani che valevano, li assumeva. Urlandogli però che non avrebbero mai dovuto montarsi la testa. Era questa la scuola Nutrizio».
Accadde anche con Vittorio Feltri ed Enzo Biagi.
«Vittorio, ancora oggi, quando parla di mio padre si commuove. Gli ha voluto bene. E gliene vuole ancora. Conservo le lettere di Biagi e Montanelli che, quando papà morì, scrissero su di lui frasi bellissime».
La Notte era noto come il giornale delle quattro «s»: sesso, soldi, sangue e sport.
«Non solo. Papà previde le prime rubriche di gossip, i concorsi per La sposa dell’anno e Lo scolaro più bravo. Non mancavano mai le informazioni utili sulla città: appuntamenti fissi erano La città al neon e Dove andiamo stasera.
Poi ci fu il colpo di genio del «listino di Borsa».
«La Notte era un giornale del pomeriggio che usciva dopo la chiusura della Borsa. Pubblicare il listino di Piazza Affari fece avvicinare alla testata anche quella fascia più alta di lettori interessati alla finanza».
Ma la sua anima rimase sempre profondamente popolare.
«La Notte era un quotidiano con titoli choc cubitali, con più foto, più rubriche».
Gli strilli che ornavano le edicole erano uno spettacolo nello spettacolo: «Detenuto vuole tenere in cella una sexy bambola»; «Sfilati gli slip a Marina Ripa di Meana»; «Strage nella nebbia. Tram investe gregge di pecore: 12 maciullate»; «Aerei troppo stretti per le grasse hostess» ecc. Altro che i titoli noiosi di oggi...
«Gran merito va ai tabloid anglosassoni, colorati e aggressivi, studiati in India durante la prigionia. Poi papà ci metteva del suo...».
Nelle foto d’epoca Nino appare in redazione più come un caporeparto di una fabbrica che come il direttore di un giornale.
«Papà a La Notte indossava solo due giacche da lavoro: una di velluto marrone, ormai liso, che metteva in tipografia, e l’altra di tela celeste. Ma fuori dal giornale era elegantissimo, con vestiti di taglio sartoriale».
Un gusto estetico per l’abbigliamento mutuato forse dalla sorella: la stilista Mila Schön.
«Non solo da lei. Mia madre, Luciana Novaro, era una famosa étoile della Scala. Una coppia davvero glamour».
Quando, a 68 anni, Nino lasciò La Notte non volle mai più scrivere. Si trasferì in Toscana, dedicandosi al suo laboratorio di falegnameria.
«Una decisione, forse troppo affrettata e netta, maturata dopo il secondo matrimonio. Credo nei 9 anni che ha vissuto da pensionato nella campagna a sud di Firenze gli sia mancato tanto il lavoro quanto Milano».
Lei, dopo essersi laureata in Drammaturgia al Dams di Bologna, è diventata autrice televisiva e scrittrice. Suo padre ne sarebbe orgoglioso.
«Non ho mai voluto fare il lavoro di papà, proprio per il rischio di confrontarmi col peso del cognome».
Per molti anni è stata assistente alla regia di Dario Fo e Giorgio Strehler. C’è un tratto caratteriale che accomuna suo padre e Fo o a Strehler?
«Sono state tre persone di grande onestà intellettuale e integrità umana. Sarebbe bello se queste fossero caratteristiche proprie di tutti gli italiani».
Il suo romanzo di esordio si intitola «Il fuoco di Agnese» (Maggioli Editore). Non ha mai pensato a un libro su suo padre?
«Quando andrò in pensione forse lo scriverò. Ho tanti documenti su di lui. Devo studiarli a fondo. Trattenendo le lacrime. Perché so bene che il maschio adulto che ho in me è mio padre».