Robinson, 22 dicembre 2019
Intervista a Iginio Massari, il re del panettone
Tra la madeleine di Proust e il rognone di Leopold Bloom (vedi l’Ulisse di Joyce) non vi è dubbio per chi batta il cuore di panna di Iginio Massari, considerato tra i più bravi pasticcieri in circolazione.
Vive a Brescia, ed è una gloria cittadina come Emanuele Severino per la filosofia o come è stato, e continua a essere, Arturo Benedetti Michelangeli per la musica. Li accomuna una certa severità o chiamatelo rigore. E poi la visione di Iginio – a proposito un nome talmente raro da far pensare a un refuso – sulla fenomenologia del dolce introduce scansioni classificatorie. Chiedo al maestro come definirebbe il sapore e lui risponde rinviandomi a sei principi base: il dolce, l’amaro, il sapido, l’acido, il salato e l’untuoso. Sembra una di quelle ripartizioni aristoteliche che tanto piacevano ai nostri scolastici medievali. Ma Iginio (pare che un papa si chiamasse così) pontifica con discrezione. Oltretutto ho il sospetto che nella testa di un pasticcere si nasconda qualcosa di visionario: l’essenza stessa della felicità che è poi il modo con cui i bambini hanno sempre guardato ai dolci.
Lei com’era da bambino?
«Vengo da una famiglia normale. Un padre impiegato nelle ferrovie e una madre che gestiva una piccola trattoria. Dovevo scegliere quale pulsione assecondare. Se il sogno dei treni o quello del cibo.
Scoprii ben presto l’attrazione per i dolci. Avevo quattro anni e finii con le mani e la faccia dentro un’enorme bacinella dove si stava raffreddando la crema. Fu come la pozione magica di Obelix. Quel profumo di cannella, unito al sapore e alla densità della crema che mi piastricciava il volto mi rivelarono qualcosa di sconosciuto e di avvolgente.
In quel momento la mia vita prese un’altra direzione. Non lo capii immediatamente ma qualche anno dopo cominciai il mio apprendistato».
Si dedicò ai dolci?
«All’inizio, le volte che andavo dalla nonna, frequentavo un forno vicino casa. Il proprietario mi permetteva di giocare con gli avanzi degli impasti.
Mi sentivo felice sotto lo sguardo dubbioso dei miei, che non capivano questa attrazione. Trovavo creativo dare una forma, anche la più bizzarra, a quella pasta morbida. E non a caso, anni dopo, mi iscrissi anche a una scuola d’arte. Ma i dolci, le combinazioni che permettevano, erano la mia ossessione. Ingigantita dal fatto che la mamma preparava torte magnifiche».
La cucina normale non la tentava?
«No, mi sembrava che mancasse di eleganza. E poi era come se il mio olfatto escludesse istintivamente certi odori e ne privilegiasse altri, meno opprimenti. Oltretutto ero curioso e stupito per certe trasformazioni. Volevo sapere perché la lievitazione trasformava una sostanza piccola in una più grande e soffice, perché la cottura rendeva duro ciò che i precedenza era morbido, cosa significava – come mi disse una volta mia nonna- che una crema potesse impazzire».
Cominciavano a formarsi nella sua testa le prime metafore.
«Se pensiamo alla parola “dolce” le prime cose che vengono in mente sono lo zucchero e il miele. Ma dolce è appunto anche l’immagine di qualcosa di gradevole, di armonioso, di bello. Una carezza o un ricordo possono essere dolci. Dolce a volte ci sembra la vita e perfino il far niente può esser dolce. E c’è il dolce stilnovo che i nostri padri della letteratura ci hanno regalato».
Le variazioni sono tantissime. Il dolce propriamente inteso quando nasce?
«Non c’è una data certa. Già nell’antichità gli egiziani creavano dolci combinando uve, datteri e miele con le loro farine. Gli ebrei confezionavano dolci gustosissimi, così i romani. Marziale è forse il primo scrittore latino a parlare di un uomo che con le mani impasta i dolci. Ma è nell’Europa medievale, grazie ai conventi, che nascono i primi laboratori di pasticceria. Sono i monaci, con l’allevamento delle api, a trasformare il miele nell’ingrediente fondamentale per la preparazione del dolce. E in precedenza erano stati gli arabi a introdurre in Sicilia e in Europa le spezie, ingredienti indispensabili come l’anice e la cannella, per confezionare i nuovi dolci».
Le realizzazioni sono però appannaggio soprattutto delle corti aristocratiche.
«Salvo eccezioni legate a festività particolari, il dolce trionfa nelle monarchie assolute. Nasce così la pasticceria barocca che si estenderà fin quasi a tutto il Novecento».
C’è poi la comparsa del gelato.
«In pieno Rinascimento sono i pasticceri toscani a creare il gelato. Lo esportano in Francia, nei caffè parigini, alla corte di Luigi XIV. Ma fanno nascere al tempo stesso una tradizione a Napoli e in Sicilia.
Gelatai abilissimi creano sorbetti e granite, che a volte scandiscono i rituali dei pranzi importanti.
Tra gli chef chi può considerarsi il più grande?
«Câreme, senza ombra di dubbio. Che non fu solo pasticcere geniale ma cuoco a 360 gradi. Le sue invenzioni, la sua cura per i dettagli ne hanno fatto una specie di Raffaello della pasticceria. Studiava Leonardo e ridisegnava le tavole dell’uomo di Vitruvio come omaggio al Rinascimento. Fu un uomo curioso di tutto. Convinto che la pasticceria non avrebbe mai potuto ambire a niente di veramente creativo senza i principi dell’architettura. La sua influenza nella corte inglese e in quella dello zar ne hanno fatto il primo chef globale della storia».
Ora non ci sono altro che chef globali. Gente che cucina soprattutto parole in televisione.
«Non so se sia un bene. Per anni ho evitato di accettare gli inviti in televisione, poi ho ceduto. Non per vanità ma perché il mezzo consente di trasmettere ciò in cui credi. Se sei solo un incantatore alla fine resterà ben poco del tuo lavoro».
La sua professione quando comincia seriamente?
«Quando, nel 1956, mio padre decide di trasferirsi in Svizzera con tutta la famiglia. Lui va a lavorare come metalmeccanico e io trovo un’occupazione in un forno pasticceria. Lavorai lì per un paio d’anni, apprendendo i segreti della panificazione. Si sparse la voce, nella Valle del Jura, che i miei croissant erano particolarmente buoni. Il titolare di una pasticceria di Budrye mi volle con sé. Claude Gerber, era il suo nome, mi ha insegnato tutto quello che oggi so sul cioccolato. Nel 1963 torniamo in Italia. A Brescia vengo preso nella pasticceria più importante, famosa per i panettoni. Una scuola eccellente. A un certo punto della mia storia decido di mettermi in proprio. Apro un laboratorio che prepara sei tipologie di torte. Ho una piccola squadra che lavora con me. Tutto va per il meglio. Ma un dramma è alle porte».
Che accade?
«Una sera tardi, mentre sto tornando dalla casa della mia fidanzata, la motocicletta su cui viaggio è presa in pieno da un’auto. Vengo sbalzato sull’altra corsia proprio nel momento in cui una macchina sta passando. Mi travolge. Resto riverso sull’asfalto.
Fratture scomposte ovunque, la mandibola fracassata e 24 denti saltati. I medici non sanno se ce la farò. Sono irriconoscibile. Pure Marì, che poi diventerà mia moglie, stenta a capire chi ha di fronte».
Ricorda qualche dettaglio di quel momento?
«Era tutto molto annebbiato. Mi hanno detto poi che i primi giorni, nonostante fossi intubato, emanavo una specie di sibilo. Poi ricordo vagamente una figura scura. Seppi in seguito che era un prete che era stato chiamato per darmi l’estrema unzione.
Uscito dall’emergenza ho passato tre anni di riabilitazione. Nel frattempo il laboratorio venne chiuso. Mi trovavo nella situazione di chi doveva ricominciare da capo. Provavo un sentimento di rabbia. E inoltre mi sentivo impreparato a una prova del genere».
Come ne è uscito?
«Alla fine pensai che poteva anche andare peggio.
Nell’impegno che dedicai per risollevarmi, nel provare a tornare quel che ero stato, c’era un grande insegnamento».
Quale?
«Qualunque tipo di rinascita richiede di trovare le energie necessarie. Una forza che puoi avere dentro o non avere. Non a tutti riesce. Credo di essere stato fortunato e di aver trovato le persone giuste, a cominciare da Marì e poi gli amici. Ho lavorato per alcuni anni nell’industria dolciaria. Aziende importanti cui ho prestato le mie conoscenze. Già nella convalescenza ripresi a svolgere la mia professione. Ricordo che il titolare di una di queste ditte dolciarie mi veniva a prendere tutte le mattine a casa e mi riaccompagnava la sera».
Cosa aveva di così speciale?
«Bisognerebbe chiederlo a loro. Penso che le mie competenze abbiano suscitato molto interesse.
Spetta agli altri misurare il tuo talento. Ammesso che ci sia. So che all’età di 33 anni mi hanno chiamato per la prima volta maestro. In quel momento ho pensato a una presa in giro. È facile, in Italia, essere promossi dottori sul campo. Rischiamo spesso di cadere nella retorica dell’onorificenza».
Non si sentiva un maestro?
«Se lo ero avrei dovuto dimostrarlo. E ho guardato alla Francia come al Paese che ha sempre difeso e valorizzato il proprio artigianato. Hanno una straordinaria scuola superiore di pasticceria che premia la meritocrazia. Sono stato l’unico italiano chiamato a svolgere il lavoro di insegnante e di esaminatore. In quel momento mi sono sentito un maestro. E ho cercato di importare quel tipo di filosofia creando una scuola di pasticceria proprio a Brescia».
So che lei è tra i pasticcieri più blasonati.
«Una giuria internazionale mi ha votato come il miglior pasticciere al mondo. Ho allenato squadre di pasticcieri che hanno partecipato a veri e propri campionati mondiali, vincendo sette titoli. Cinquantanove medaglie d’oro, l’ultima sul panettone».
Il Natale è alle porte. C’è una rimonta del panettone artigianale.
«È vero, ma non tutti gli artigiani sono uguali. Il primo ingrediente di un panettone è la competenza, il secondo è la qualità dei prodotti. Ma questo vale per ogni dolce».
Qual è il suo preferito?
«Il millefoglie di mia madre, che non riesco a fare come lo faceva lei. È il dolce del sentimento o dell’infanzia. Come la madeleine di Proust, appunto».
In tutti questi anni non le è mai venuta la tentazione di fare lo chef a tutto tondo?
«Non mi ha mai dato la stessa emozione. La pasticceria è un mestiere di alta precisione. La cucina si esercita con il “quanto basta”».
Sono entrambi mondi dell’alchimia.
«È vero. Ma mondi rigorosamente separati. Si chiamerebbe ancora arrosto una carne cucinata con lo zucchero? Se lo chiedeva Kierkegaard, dubitando dell’esito».
Il dolce è poi associato immediatamente al peccato di gola.
«Non ne sarei così sicuro. In fondo il primo vero peccato lo commise Adamo mangiando la mela.
Certo era un simbolo, ma fu quel primo boccone da vegetariano a condannarlo. Il resto è storia profana.
Qual è il dolce che meglio si presta alla simbologia?
Sicuramente la torta di matrimonio. È bianca perché indica l’intenzione pura dell’amore. Al suo taglio concorrono gli sposi perché le decisioni vanno prese insieme; e infine i piani e le decorazioni delle torte sono dispari perché rappresentano l’indivisibilità del matrimonio. Ma ci si sposa sempre meno e anche la simbologia va un po’ sparendo. È un peccato perché in pasticceria, come nel resto delle attività umane, non c’è innovazione senza tradizione».