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 2019  dicembre 22 Domenica calendario

La nuova Lega tra sovranismo e salvinismo

Il nuovo partito sovranista di Salvini, al quale da oggi potranno iscriversi anche i militanti della Lega Nord, si chiama come il suo capo: Lega per Salvini premier. Mai visto prima. Sono tanti i partiti che inseriscono nel simbolo elettorale il nome del candidato premier. Ma non si era ancora visto un partito che, fin dal suo nome, dichiara di esistere in funzione del suo capo.
In Argentina, Juan Domingo Peròn diede vita al Partido Justicialista, soprannominato peronista. In Francia, Charles De Gaulle chiamò RPF (Rassemblement du peuple français) il suo movimento, poi gollista. Lo stesso vale per Pierre Poujade, fondatore dell’Union Fraternité Française, in seguito nota come poujadismo.
Quello che ormai è diventato il primo partito italiano, nel recedere dal suo scopo originario, l’indipendenza della Padania, si sottomette invece fin nella ragione sociale al leader che in sei anni ne ha decuplicato i consensi. Dunque: non Salvini per la Lega, non Lega Nazionale, bensì la Lega per Salvini.
Il nuovo statuto è stato approvato in fretta e furia per alzata di mano da un paio di centinaia di delegati (su 500, molte sedie sono rimaste vuote al centro congressi di Bruzzano), con ciò sancendo la svolta che sembra rendere inscindibile il destino del partito dal destino personale del suo capo. «Lunga vita», non a caso, gli ha augurato Roberto Calderoli illustrando la novità: «Matteo, riguardati, perché noi abbiamo assolutamente bisogno che ci sia Salvini per la Lega».
L’urgenza di questa blindatura ha molto a che fare con l’incertezza degli equilibri politici, ma anche con le preoccupazioni del Capitano che lo scorso mese d’agosto, non si sa bene se per calcolo o per un mojito di troppo, ha trasferito la Lega dal governo all’opposizione. Se le elezioni in Emilia Romagna non andassero per il verso giusto e se l’attuale Parlamento restasse in carica fino al 2023 -insomma, in assenza di una spallata vittoriosa- il malumore farebbe presto a ritorcersi contro l’intestatario del partito.
Ci voleva Umberto Bossi per ricordare che lì era riunito a congresso, forse per l’ultima volta, il partito fondato l’8 dicembre 1989, esattamente trent’anni fa, in un altro albergone dell’hinterland milanese, con la finalità inconfondibile di “partito nazionale dei popoli del Nord”. Fu lì che ai lombardi si unirono i veneti, i piemontesi, i liguri e poi via via gli altri riconosciuti generosamente “padani”, ma sempre nel segno dell’indipendentismo: “via da Roma!”.
Altro che “prima gli italiani”. Arrivato in sedia a rotelle dal suo eremo di Gemonio, salito a fatica sul palco, Bossi ha voluto impartire una lezione di nordismo militante agli smemorati: «Senza la spinta sociale contro il Palazzo, senza identità e appartenenza, senza battere il centralismo, non basta avere tanti parlamentari». Cita le sardine –«guai a sottovalutarle»- per richiamare i delegati all’epopea delle origini leghiste, «quando riempivamo di scritte tutti i muri del Nord».
E giù coi ricordi: la sfida ai «poteri forti e malavitosi del Sud»; la lotta contro l’invio dei boss al soggiorno obbligato nei comuni lombardi; rivangando, dai Savoia alla Democrazia cristiana, pure la sospetta facilità con cui Garibaldi conquistò l’Italia meridionale. E se ora è giusto aiutare il Sud, «altrimenti straripano come l’Africa», è perché i meridionali restino a casa loro.
Bossi è solidale con Salvini contro i giudici che lo incriminano per difendere il «magna magna». Ma il segretario non si permetta di archiviare la Lega Nord, di cui Bossi resta presidente a vita. Dito medio levato: «Col cazzo che le faranno il funerale!». Il vecchio leone ruggisce: «Salvini non può imporre un cazzo. Siamo noi che gli concediamo il doppio tesseramento». Anche il simbolo del guerriero con lo spadone dovrà guadagnarselo, se non vuole raccogliere le firme su un marchio nuovo.
Si alzano in piedi, lo applaudono, Salvini lo abbraccia. Ma poi, nel suo discorso conclusivo, a Bossi non riserverà neanche una citazione di cortesia. Lui si era presentato al congresso dell’incoronazione sovranista esibendo un presepe opera di un artigiano di Salerno. Cerca voti al Sud, la sua Lega. Non può permettersi revival indipendentisti. La voce roca, le frasi spezzate, il fisico menomato del fondatore, devono rimanere reperti da museo, cui si concede la garanzia di un degno mantenimento assistenziale. Il tempo nuovo mette in sordina anche il federalismo. Sepolta la memoria del teorico dell’Italia spezzata in due, Gianfranco Miglio, tocca all’ahimè maccheronico professor Paolo Becchi declinare il significato della nuova parola d’ordine: il sovranismo. È da rivalutare, questo termine «malfamato»: sovranismo delle identità contro un’Europa trasformatasi in «impero neoliberale a guida franco- tedesca».
Bossi se ne va, la sedia a rotelle sospinta dai fidi assistenti Giambattista e Diego, gli occhi lucidi. Abbraccia i volti a lui familiari. Tocca a Salvini guardare oltre, presentando addirittura la sua Lega come «l’ultima àncora di salvezza per il popolo cristiano occidentale», contro la «superpotenza dittatoriale cinese» destinata ad allearsi con il «fanatismo islamico». Vasto programma, che cozza con la fretta di tornare allo shopping natalizio per l’ora di pranzo.
Ora il partito è davvero tagliato a sua immagine e somiglianza. Un partito di destra sovranista lanciato all’assalto delle ultime roccaforti della sinistra, come aveva tuonato poco prima il segretario leghista della Toscana: «Qui non c’è il politicamente corretto, si gode come ricci quando apriamo le nostre sedi di fronte ai covi rossi dei comunisti». Sovranismo o salvinismo?