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 2019  dicembre 22 Domenica calendario

Intervista a Ivano Fossati

«Leale» non è probabilmente il primo aggettivo che viene in mente per definire un disco. Ma è proprio quello che Ivano Fossati sceglie per spiegare il successo del lavoro realizzato con Mina. «Bisogna fidarsi dell’intelligenza e della sensibilità delle persone. Se tu fai qualcosa di buono, là fuori se ne accorgono, non si deve commettere l’errore di pensare che la gente stia tappata in casa ad ascoltare musica orrenda. Però bisogna lavorare bene. Se riesci a dimostrare che il lavoro è espressione sincera del tuo animo e non lo hai fatto pensando alle classifiche, ecco, il pubblico ti premia perché riconosce la lealtà. Così è successo con Mina. Nei due anni del progetto non abbiamo mai pensato alle vendite.
Certo, ora siamo contenti di sapere che il disco funzioni bene, ma mentre registravamo ci basta va essere felici di quello che stavamo facendo». Una luce delicata illumina il soggiorno della casa nel centro di Genova mentre Ivano Fossati ricostruisce la genesi di Mina Fossati. Intorno, la musica è una presenza importante, ma discreta: il pianoforte Steinway & Sons, i cd di Miles Davis, una lunga fila di vinili nel ripiano più basso della grande libreria. Il discorso si allarga ai nuovi talenti della musica, alla politica, a Genova e si coglie sempre una nota di speranza, forse frutto proprio dell’esperienza di questo disco che ha riportato sulla scena dopo un esilio volontario uno degli autori più importanti e apprezzati.
Su Wikipedia si legge «In attività dal 1971 al 2012, torna brevemente nel 2019 per un disco con Mina». Ha aggiunto lei «brevemente»? E davvero pensa di scomparire ancora?
«Non so chi l’abbia scritto, ma soprattutto non so bene che cosa succederà, adesso seguo quello che sta avvenendo per questo disco, poi vedrò».
Questo significa che è aperto a eventuali altri impegni professionali?
«È molto possibile che io torni alla vita di prima, però non è il momento di decidere niente. È già stata una grossa decisione rimettermi a fare un disco».
Comporre canzoni non è un lavoro di ufficio, non si va in pensione. In questi anni cosa ha fatto? Ha nella memoria del computer brani che aspettano di essere pubblicati?
«No, no. Non ho scritto niente se non poche canzoni per alcuni colleghi come Fiorella Mannoia. Non ho mai tenuto canzoni in memoria, anche quando preparavo i miei dischi, facevo 11 canzoni e pubblicavo quelle. Moltissime volte è capitato che mi telefonassero editori o cantanti e mi dicessero “sicuramente avrai qualcosa nel cassetto”. Invece no, i cassetti li tengo vuoti. Perché non mi piace lavorare senza uno scopo, quando non devo preparare un disco preferisco pensare a tutt’altro».
Non le capita di vedere qualcosa che ispira di getto versi che poi magari restano lì?
«Mi appunto delle cose, questo sì, a volte se mi viene un pensiero bello leggendo un libro o durante un viaggio, lo scrivo, ma non ci costruisco una canzone. Mi tengo quell’idea nel caso possa servire».
A cosa si è ispirato per le canzoni di Mina Fossati?
«Non è facile spiegarlo, perché è il disco più particolare che abbia mai scritto. Io ho sempre fatto canzoni univoche, perché fossero cantante da un artista solo, io o un altro. Per la prima volta ho scritto canzoni che sono dialoghi, ho dovuto creare piccole drammaturgie, storie che potessero funzionare a due voci. Non si tratta semplicemente di prendere un brano, smembrarlo in tante parti e ognuno ne canta una. Vuol dire invece pensare a una canzone in maniera teatrale».
Quindi un lavoro che ha preso a forma lungo il percorso?
«È stato stimolante confrontarmi con Mina, trovare idee condivise. I nostri mondi sono contigui, ma non esattamente sovrapponibili, i miei dischi sono diversi dai suoi, per cui dovevamo incontrarci».
Come ha trovato questo punto di incontro?
«Ragionando, prima io da solo, poi con lei, pensando alla sua storia musicale e alla mia. È capitato che Mina dicesse “questo concetto non è proprio mio”, in altri casi avevo bisogno di esprimere di più il mio modo di pensare. È stata un’interfaccia continua, l’ispirazione è nata così».
Rispetto all’idea originaria, c’è una canzone che con l’intervento di Mina è cambiata più di altre?
«Sono cambiati i particolari tecnici, non altro. Io scrivo in maniera molto ritmica, stretta, mentre la voce di Mina ha bisogno di spazio. A volte mi sono reso conto che le stavo dando troppe note e troppe sillabe e invece ci sono momenti in cui la sua voce meravigliosa deve decollare. Così, gradualmente, ho capito come potevamo rendere al meglio insieme. È stato come mettere a punto un motore».
Dopo questi anni lontano dalla ribalta, che effetto fa risentire la sua voce alla radio?
«Non ho trovato molti cambiamenti o grandi innovazioni, mi sembra che tutti lavorino nello stesso modo di quando avevo lasciato 8 anni fa».
Lei ha cominciato con il rock, poi ha virato su altri generi. Oggi la sua vita che ritmo ha?
«Più maturo e consapevole. Trovo molto più facile guardarmi intorno, vedere le cose con distacco e nello stesso tempo in maniera più limpida. Mi rendo conto che puoi vincere o perdere e non conta niente, puoi avere successo o no e la tua vita non cambia, quello che conta è fare le cose bene, che poi è quello che ci siamo detti la prima volta al telefono Mina e io, “Facciamolo questo disco, siamo padroni di noi stessi, divertiamoci”. Capito? Totale lontananza dall’idea di ricercare il successo a tutti i costi, dall’idea delle classifiche. Adesso ci siamo in classifica, bene, ma non perché l’abbiamo desiderato tanto».
Ha commentato con Mina il successo del disco?
«No, lei è totalmente distaccata da queste cose. Come d’altronde io, anche se un po’ meno. Ogni tanto sono tentato di vedere quante copie si vendono, poi mi dimentico di farlo».
La vostra carriera attraversa diversi decenni, come si fa a essere sempre contemporanei, a fare un disco figlio di questi tempi e non legato a un modello del passato, anche se di un passato di successo?
«Senza presunzione credo lo si ottenga “restando svegli”. Io sono sicuro di essere sveglio, nel senso che mi guardo intorno, sto attento a quello che succede, me lo faccio piacere molte volte, mi interesso. Mina altrettanto, è una donna estremamente attenta e nonostante il fatto che viva un po’ distaccata dal mondo, segue tutto e vede tutto. Trovandoci insieme, è venuto naturale essere più avanti della nostra storia».
Lei che musica ascolta?
«Moltissimo jazz, abbastanza classica, qua e là anche lirica e poi mi piace restare informato sulle novità, apprezzo le band, specialmente quelle inglesi. Ma anche molte cose che succedono in Italia, Tha Supreme a esempio. Non ho nessun tipo di chiusura sulla musica che avanza, mi interessa capire come è costruita».
C’è qualcuno per cui le piacerebbe scrivere oggi, magari qualche giovanissimo artista italiano?
«Sì, in qualche caso è già successo e se ricapiterà ne sarò contento. Vede, io non ho il culto dell’intangibilità della musica, anzi sono convinto che sia un elemento duttile in cui si debbano mettere le mani. Mi piace molto quando qualcuno lo fa con i miei pezzi, magari non sempre vengono bene, però apprezzo l’idea. E la cosa migliore che possa capitare a un autore è essere reinterpretato da ragazzi di 20 anni».
Parlava prima della necessità di osservare quanto capita intorno a lei. Che cosa le ispirano questi tempi complicati?
«Mi sembra che in tutti noi ci sia un gran bisogno di speranza e dopo una fase di stasi vedo la gente scendere in piazza a migliaia e sono bei segnali, ci dicono che intelligenza e sensibilità non sono state messe da parte. Vedo Greta Thurnberg parlare da pari a pari con i grandi del mondo e sempre più gente che ascolta. Sono, come dire?, una presa di coscienza, qualcosa che fa capire come dopo un periodo di assopimento, si accendono piccole lampadine di intelligenza».
Una sua canzone diventò anni fa la colonna sonora dell’Ulivo. Oggi avrebbe un’altra Canzone popolare per accompagnare le Sardine?
«Assolutamente no. I movimenti non hanno bisogno di canzoni, come sinceramente non ne avevano bisogno i partiti. Io, poi, da tempo non seguo più la politica partitica. Questi giovani e meno giovani che si danno una scossa, hanno solo bisogno del loro coraggio, non di inni».