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 2019  dicembre 21 Sabato calendario

Durante un soggiorno romano lo scrittore Gabriel Matzneff riceve in dono dall’amico Giuliano Ferrara Contributo alla critica di me stesso, ovvero l’autobiografia di Benedetto Croce

Durante un soggiorno romano lo scrittore Gabriel Matzneff riceve in dono dall’amico Giuliano Ferrara Contributo alla critica di me stesso, ovvero l’autobiografia di Benedetto Croce. Matzneff è un personaggio byroniano, Ferrara una figura falstaffiana e nella coincidentia oppositorum i due sono fatti per intendersi: stesso gusto per la vita, disprezzo per le opinioni alla moda, libertinismo intellettuale. È Croce il terzo incomodo, e se per un italiano l’idea liberale è quella cosa lì, buon senso, principi solidi, morale borghese, dietro al liberalismo francese c’è Chateaubriand, ovvero delirio dei sensi, beau geste, disordine sentimentale e insomma due lingue fatte per non capirsi. «Contributo. Le pagine sull’infanzia, i ricordi del collegio hanno un loro fascino, ma prestissimo vien fuori l’intello puro, il carrierista universitario, il piccolo borghese prudente. Ho chiuso il libro, deciso a non riaprirlo più, dopo aver letto le pagine su d’Annunzio, dal quale Benedetto Croce prende virtuosamente le distanze, afferma con un ridicolo tono quacchero di essere impenetrabile alle insidie del sensualismo e del decadentismo». Risultato: «Infilo Croce nella valigia e tiro fuori i Colloqui di Schopenhauer, un compagno di strada infinitamente più piacevole».
Se la scelta, sciagurata, di Croce è opera di Ferrara, quella di La Corsara, la biografia di Natalia Ginzburg scritta da Sandra Petrignani, è invece, altrettanto sciagurata, farina del sacco di Matzneff, probabilmente fuorviato dal titolo. «Ciò che mi colpisce nella descrizione del milieu Einaudi dove la Ginzburg si forma, dove si svolge questo libro di 450 pagine, è nell’essere tutti comunisti, tutti ebrei, che tutti i loro amici lo siano, come se a Torino, a Roma, in Italia, gli scrittori che non appartenevano a questa cerchia non esistessero». E ancora: «Uscirò da questa biografia amando un po’ meno Natalia Ginzburg di quanto non la amassi prima di leggerla. Nel 1973, la Ginzburg non è una di primo pelo, ha 57 anni. Come una donna intelligente di quell’età può scrivere (in uno dei suoi articoli per il Corriere della Sera) stronzate come questa: Per me è destra tutto quello che è falso, sinistra tutto quello che vero. Misericordia!». Risultato: «Pensavo di portarmi La Corsara a Parigi, la lascerò alla biblioteca dell’albergo».
Se la saggistica italiana offre a Matzneff durante le sue vacanze nel nostro Paese poche occasioni per gioire, la lettura dei nostri quotidiani lo fa riflettere: «Ho tentato di leggere Repubblica in treno, ma è così mal scritto, così noioso, che vi ho subito rinunciato. Perché i giornalisti italiani di destra hanno di gran lunga più spirito, più stile, più humour di quelli di sinistra? Perché Scalfari intinge la sua penna nel cemento armato e Feltri nell’argento vivo?». Già, perché?
Tutto questo, e naturalmente molto altro, lo potete trovare in L’Amante de l’Arsenal. Journal 2016-2018 (Gallimard, pagg. 417, euro 24), il nuovo libro di Gabriel Matzneff, il suo quarantottesimo per l’esattezza. Matzneff ha superato gli ottant’anni; si considera «un pigro, ma un pigro che lavora»; sa che con 800 euro di pensione «non esiste pensione per gli artisti. La vita di bohème è marcia o crepa, come nella Legione straniera». Sa anche, per età e perché da anni combatte contro un tumore, che «la mia clessidra è agli sgoccioli», ma non sta lì a preoccuparsene più del dovuto: «Imperator se bene habet», il generale sta bene, è la risposta che darà Scipione ai suoi luogotenenti che si preoccupano per lui, intanto che si uccide per non cadere in mano nemica. Anche Matzneff è un antico romano.
Su questo punto torneremo, ma per il momento fermiamoci sull’Amante de l’Arsenal, che è Matzneff allo stato puro, una musica dello stile che è solo sua, mai pesante, sempre viva, elegante senza eccesso, gioiosa, che ti trasporta e ti culla insieme. In Le dîner des mousquetaires, una raccolta dei suoi scritti giornalistici, c’è in proposito una riflessione che vale la pena riportare: «Do poca importanza alle idee, molta alla scrittura. Non c’è, a ben vedere, nessuna idea, per quanto originale, che noi non spartiamo con una moltitudine di individui, mentre il nostro stile è il nostro bene proprio, il nostro marchio, ciò che fa sì l’essere noi e nessun altro. È la scrittura a essere creatrice di bellezza e noi siamo su questa terra per creare della bellezza e solo per questo».
Le dîner des mousquetaires rimanda nel titolo a un incontro conviviale che, inauguratosi nel 1972, ha continuato a mantenersi nel tempo, come L’Amante de l’Arsenal registra appunto mezzo secolo dopo. Il 9 marzo e il 4 dicembre sono rispettivamente l’anniversario della morte del cardinal de Mazarin e del cardinal de Richelieu, e intorno a quelle date i moschettieri à la Matzneff ne celebrano la memoria e insieme brindano all’amicizia che nell’occasione si rinnova. Nel tempo, molti sono scomparsi, ma chi li ha sostituiti ne conserva lo stesso spirito, fedeltà alla giovinezza e a sé stessi, estetica della vita, assenza di risentimento, piacere della tavola, volontà di riconciliazione: «Amare la storia significa vivere nella familiarità delle anime magnanime che nel corso dei secoli l’hanno popolata. Che non si sia, signori, né cardinalisti né frondisti, ma moschettieri». Dumas è uno degli écrivains de chevet di Matzneff, ma lo è nell’unico senso possibile con cui ciascuno di noi guarda alle opere dei grandi che lo hanno preceduto. Guardiamo a uno specchio ed è la nostra immagine quella che ci viene rinviata: «In letteratura, più che in ogni altro campo, si ama solo ciò in cui ci si ritrova. Ecco perché le influenze non esistono: la lettura dei maestri non modifica né il nostro carattere né il nostro intelletto. Non fa che aiutarci a conoscersi meglio, il che è già molto».
In quanto diario, L’Amante de l’Arsenal è naturalmente un libro narcisistico, ma lo è di tipo particolare, un Narciso «che non esiste se non in rapporto con le giovani persone di cui si innamora, gli amici che incontra, i Paesi che visita, gli avvenimenti che attraversa. Sono un solitario, ma un solitario entusiasta, attento e curioso». Sotto questo aspetto, il libro è una silloge di letture fatte, film visti, bottiglie bevute da soli o in compagnia, liaisons sentimentali, discussioni accese. Se dovessi passare una settimana con Matzneff sarei già morto...
Alle accuse di nombrilisme, di letteratura dell’ombelico, Matzneff replica con sprezzo: «Se da Agostino a Baudelaire gli scrittori si guardano l’ombelico è perché la fonte della loro ispirazione è la loro propria sensibilità, il loro sguardo singolare. È dal mio ombelico (ossia dai miei cinque sensi, dal mio cuore, dal mio cervello, dalle mie viscere) che prende forma l’interpretazione (non dico la comprensione, sarebbe pretenzioso, ma l’interpretazione) di ciò che vivo, sperimento, in tutti i campi, nel corso della mia esistenza. Il contrario dell’obiettività. Solo Dio, se esiste, è obiettivo». È anche vero però che non basta guardarsi l’ombelico per ritrovarsi scrittore, e di questo la narrativa italiana contemporanea è buona testimone.
La romanità infine. È un tema ricorrente in Matzneff fin dal suo primo libro, Le Défi, del 1965: «I Romani hanno la gloria di aver fatto discendere sulla terra la filosofia greca, teorica e astratta. I Greci hanno un vivissimo gusto per le questioni metafisiche: Dio, l’immortalità dell’anima... I Romani hanno della filosofia una concezione più pratica, più quotidiana. Per loro filosofare non è giocare con le astrazioni, è imparare a bene vivere e a bene morire, che del resto sono fra loro connessi, poiché morire bene è sfuggire al pericolo di vivere male (Seneca)». L’Amante de l’Arsenal è pieno di annotazioni relative al peso, al digiuno, al cibo, ma non hanno nulla a che fare con la moda moderna della forma fisica, le cosiddette cliniche della salute etcetera. Più semplicemente, «ciò che domandavo agli antichi era un’arte di vivere, delle regole da utilizzare ogni giorno, una visione dell’esistenza. Mi aspettavo da loro che mi insegnassero a amare, mangiare, riposarmi, lavorare, sfuggire le sofferenze, essere libero. Applicavo all’insieme della cultura antica la definizione che Schopenhauer dà dello stoicismo: Una dietetica spirituale». È anche, se si vuole, chiedere al passato di rendere «il presente, il mio presente, più bello e più felice. Una visione edonistica della storia».