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 2019  dicembre 21 Sabato calendario

Cronaca di una giornata a Tripoli (aspettando Haftar)

Due colpi, a forse tre secondi l’uno dall’altro. Secchi, infidi, arrivati dal nulla. Due sibili che fendono l’aria e vanno a sbrecciare il muro dell’abitazione a meno di un metro da noi. C’eravamo fermati da qualche minuto nella strada deserta del quartiere di Salahaddin in attesa dei volontari della milizia Ghnewa che ci scortassero forse un chilometro più avanti sulla linea delle postazioni contro le forze del maresciallo Khalifa Haftar. Al riparo di un balcone, di fronte a un negozio di alimentari sventrato dalle esplosioni, avevamo visto alcuni pulcini sporchi, affamati. È la sorte degli animali abbandonati dai civili sfollati di fretta e furia, che sempre si trovano nelle zone di guerra. Avevamo provato a dare loro un poco di biscotti secchi raccolti dalle confezioni sparse a terra. Ed è allora che un cecchino, invisibile, appostato chissà dove, ha premuto il grilletto. Non abbiamo neppure sentito lo sparo quando i calcinacci e le schegge ci hanno sfiorato la testa. «Che stupidaggine! Morire per due polli», è stato il primo pensiero. Ma per i miliziani non c’è nulla di nuovo. «Avviene tutti i giorni. Qui si combatte soprattutto a duelli tra cecchini dotati di ottimi fucili col binocolo e bombardamenti mirati di piccoli droni. Nostri e loro», hanno spiegato. Dicono che con il dispiegamento a settembre dei cecchini russi il gioco si è fatto più duro. Dal campo di Haftar replicano che, da dopo l’accordo tra Sarraj ed Erdogan il 27 novembre, ora stanno arrivando i tiratori scelti turchi. «Resisteremo contro i nuovi invasori ottomani», tuona da Bengasi il portavoce militare Ahmed Mismari, minacciando raid su porti e aeroporti della Tripolitania per bloccare i rinforzi. In serata i social di Tripoli mostrano l’arrivo di tank con le bandiere turche da Misurata con i rinforzi turchi che sembrano aver già bloccato l’attacco di Haftar sul quartiere di Tarhuna.
È la battaglia alle periferie di Tripoli, sempre più diretta al cuore della città. A seconda dei simboli e dei numeri disegnati sulle auto mimetizzate in marrone e nero si riconoscono le appartenenze alle cinque maggiori brigate schierate col governo di accordo nazionale guidato da Fayez Sarraj: quella di Eithan Tajuri sulle arterie maggiori, quindi la Ghnewa verso l’aeroporto, la Rada che controlla le prigioni più importanti, la Al Bugra dei guerriglieri del quartiere di Tajura, la Al Nawassi del quartiere di Abu Sitta. Tra loro spesso nascono contenziosi, specie in queste settimane che Sarraj sta ritardando i pagamenti. Ma anche si ricompattano contro il nemico comune. Come le numerose milizie inviate da Misurata, che dai primi di ottobre erano sempre più divise tra quelle disposte a mandare volontari a Tripoli e le contrarie. Però, da ieri Haftar minaccia apertamente di bombardare la loro città, se entro tre giorni non si ritireranno da Tripoli e Sirte. Risultato: il fronte è tornato a unirsi. Vedremo invece cosa faranno gli oltre 300 soldati italiani dispiegati con l’ospedale militare inviato a Misurata nel settembre 2016. Si trovano nell’area della base militare dell’aeroporto, un obbiettivo sensibile già sfiorato dalle bombe di Haftar nell’estate. Ieri dallo Stato maggiore a Roma hanno rifiutato la visita dei giornalisti italiani.
Nel pomeriggio sale sulla nostra auto un ex giornalista 46enne, che tiene i collegamenti tra alcune migliaia di ex militari del vecchio esercito di Gheddafi e giovani volontari armati pronti a insorgere in città al fianco dei soldati di Haftar. Accetta di farsi fotografare solo col volto coperto. Se fosse catturato rischierebbe la vita. È noto col nome del suo blog, Safuan Trabulsi. «Noi siamo le cellule dormienti. Attendiamo l’ordine per scendere in piazza. In maggio avevamo provato. Ma decine dei nostri sono stati arrestati o uccisi», dice. Sugli stessi balconi stanno ad asciugare uniformi e camicette da bambini. Nei garage si riparano i pick up con le mitragliatrici montate sul cassone. Transitiamo nei quartieri di Al Hadba e Al Keisa: a zone ingorgate dal traffico degli sfollati si alternano vie deserte. Indica il complesso ospedaliero di Abu Selim, rigorosamente destinato ai miliziani feriti. Quanti siete? «Oltre 4.000. Ma la popolazione è stanca della guerra e di essere derubata impunemente dalle milizie. Quando Haftar arriverà tanti si uniranno a noi», replica. A suo dire manca poco all’ora finale. Eppure, da un paio di giorni la situazione si è fatta stranamente più calma, come se i rinforzi stranieri giunti ai due campi li riequilibrassero, costringendo all’ennesima tregua.