Corriere della Sera, 22 dicembre 2019
I droni di Sigonella
Possono volare a 18 chilometri dal suolo, quasi il doppio rispetto agli aerei di linea. Talmente in alto da essere indifferenti al maltempo, se non nelle fasi di decollo e atterraggio, perché a quella quota è sempre sereno. La presenza di perturbazioni atmosferiche al di sotto della rotta non ostacola la visuale verso terra: i segnali radar inviati per capire che cosa succede sulla superficie terrestre o su mari attraversano le nuvole. Riescono a vedere fino a 200 chilometri di distanza dal punto di volo, una lunghezza pari all’incirca al percorso tra Roma e Napoli e in linea d’aria maggiore.
Vengono definiti aerei senza pilota, ma è una mezza verità. Il pilota non si trova a bordo, eppure lo hanno e non è per niente superfluo. I «Nato Rq-4D Phoenix», e soprattutto il sistema di ricognizione e valutazione di cui fanno parte, costituiscono una delle punte avanzate della quale sta per servirsi la Nato mentre è in corso una competizione di portata storica: la gara tra un Occidente al quale è indispensabile mantenere un primato tecnologico in campo militare e nuove potenze mondiali, innanzitutto la Cina, interessate a sottrargli questa supremazia. Una competizione dalla quale dipenderanno sia la nostra sicurezza sia la capacità di influenza politica della parte di mondo a cui apparteniamo, purché nel frattempo essa non perda coesione.
La base degli aerei a pilotaggio remoto Rq-4D della Nato sta prendendo corpo – materialmente, non solo metaforicamente – a Sigonella, provincia di Catania. Due droni sono già arrivati dopo 22 ore di volo dalla California, altri tre si aggiungeranno nel 2020, quando ci si addentrerà in una fase operativa che raggiungerà il pieno regime in tre anni. Per adesso i compiti da affidare ai droni di Sigonella sono limitati a perlustrazioni negli spazi aerei dei 29 Paesi dell’Alleanza Atlantica. È chiaro tuttavia che in caso di tensioni internazionali o di guerre si spingerebbero oltre, purché uno degli Stati aderenti lo domandasse e il Consiglio atlantico accettasse. Con una vista di 200 chilometri, per avere un’idea, dalle acque internazionali si può guardare della Libia almeno la parte settentrionale. E qualcosa di simile può avvenire dall’Europa dell’Est verso la Russia.
In alcuni locali, accesso consentito senza telefonini o altri oggetti teoricamente in grado di spiare. Sui telefoni fissi, un adesivo con funzione di promemoria per gli stessi militari: «The telephone is not secure», il telefono non è sicuro. Nella visita che chi scrive è stato autorizzato a compiere con otto giornalisti di varie nazionalità, la base si è presentata metà come cantiere e metà simile a una redazione di quotidiano o telegiornale.
I droni vengono guidati in una stanzetta nella quale ci sono il pilota e un sensor operator, tecnico dei sensori. «Uso gli stessi strumenti che impiegherei su un aereo. Può essere anche noioso, ma devi sapere che cosa succede esattamente come se stessi in volo», ha detto un pilota.
Le registrazioni di ricognizioni che abbiamo potuto osservare erano di due tipi: lineette gialle come vermetti in movimento su uno schermo scuro, una panoramica con palazzi in bianco e nero somigliante a una radiografia. Sagome non tutte facili da interpretare, altro che Google map satellitare. Qui sta il cuore del sistema. Benché i droni siano imbottiti di sensori sofisticati, per capire che cosa rilevano occorre l’uomo.
L’aula simile a una redazione confina con la stanza del pilota. Contiene file di scrivanie con computer: la prima per quattro ufficiali che hanno il controllo della missione, la seconda per quattro esperti in sorveglianza, la terza per cinque analisti di immagini, la quarta per cinque supervisori di intelligence ossia coloro che devono trasformare le informazioni grezze ricevute dal cielo in prodotto finito da trasmettere ai comandi.
Il processo è più o meno questo: i tecnici di sensori e immagini raffinano il materiale visivo, l’intelligence interpreta le notizie. Se le linee in movimento indicano la presenza di un grande oggetto su un camion, per capire se si tratta di un missile la squadra può doversi procurare dati sulla larghezza della strada e la sua capacità di sostenere i pesi dei possibili missili.
Che la Alliance ground surveillance main operating base, Principale base operativa per la sorveglianza dell’Alleanza su territorio, sia a Sigonella è di rilievo per il nostro Paese perché l’Italia non ha più la rendita di posizione mantenuta mentre era confine tra un blocco a influenza americana e un altro dell’Unione Sovietica. Il sistema Ags è costato dal 2015 circa un miliardo e 350 milioni di euro. Anche se le notizie che ricaverà saranno utilizzabili da ogni alleato, i soci dell’impresa sono 15 Stati della Nato.
Dei 350 addetti della base, gli italiani sono 67, terzi dopo statunitensi e tedeschi. Nel 2021 il totale salirà a quasi 600 con sei a Ramstein, Germania, e altri nel comando Shape in Belgio. La Forza per la sorveglianza ha un vicecomandante italiano, il colonnello Stefano Bianca. Una delle aziende del progetto è Leonardo. Usa e Regno Unito hanno droni analoghi, la Nato sostiene di costruire una rete senza pari per articolazione. Se la studieranno bene la Russia e la Cina.