Corriere della Sera, 22 dicembre 2019
La guerra commerciale di Trump
Con l’introduzione di dazi elevati e imposti contro Paesi e beni specifici, Donald Trump ha riaperto il triste capitolo delle guerre commerciali. Un capitolo chiuso molti decenni orsono quando 164 nazioni, cioè quasi tutte, approvarono un accordo internazionale sul commercio e crearono un’istituzione, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc), con il compito di farlo rispettare e di mantenere la pace commerciale. Vi si era arrivati, con grande fatica, in risposta ai disastri degli anni Trenta del secolo scorso, quando le guerre commerciali trasformarono una crisi finanziaria nella Grande Depressione. La crisi finanziaria del 2008 non ha prodotto una grande depressione proprio perché le guerre commerciali sono state evitate, almeno fino ad ora.
Due sono le motivazioni per imporre dei dazi. La prima scatta quando un Paese viola le regole che garantiscono il libero commercio: per esempio imponendo norme ingiustificate sulla qualità dei beni che si possono importare, o se un Paese viola le regole sulla proprietà’ intellettuale, o impone tasse o sussidi domestici che equivalgono a tariffe. In questo caso i dazi puniscono un Paese per indurlo a rispettare la legge. Ma è un modo molto costoso. Proprio per questo è nata l’Omc, per risolvere questi problemi pacificamente.
La seconda motivazione per imporre dei dazi suona più o meno così.
In Cina i salari sono tanto bassi che le aziende cinesi possono produrre quasi tutto a costi molto inferiori rispetto ai paesi ricchi. Per difendere le proprie produzioni questi sono obbligati a imporre dazi, altrimenti non produrrebbero più nulla. Certo, i consumatori dei paesi ricchi finiscono con il pagare di più, ma è una conseguenza necessaria affinché le economie avanzate possano sopravvivere. Pare ovvio. Ma non lo è. Paul Samuelson uno dei più grandi economisti della storia, disse che il «teorema dei vantaggi comparati» è una delle rare affermazioni in economia che è vera e non ovvia. Che cosa dice questo teorema?
Immaginiamo due paesi, chiamiamoli Usa e Cina, e pensiamo che producano due beni, magliette e computer. La Cina può produrre sia magliette che computer a costi inferiori rispetto agli Usa. Ma la differenza di costo fra produrre magliette in Usa e in Cina è più alta della differenza di costo nella produzione dei computer. Allora che succede? La Cina produce sia magliette che computer, gli Usa comprano tutto dalla Cina e vanno in bancarotta? No, proprio per il principio dei vantaggi comparati. Alla Cina conviene specializzarsi in magliette perché è lì che può fare più profitti vendendo agli Usa, proprio perché le differenze di costi di produzione sono più alte che per i computer. Con i profitti delle magliette vendute agli Usa la Cina compra computer prodotti negli Usa. L’industria delle magliette scompare dagli Usa e quella dei computer scompare dalla Cina. Ecco a cosa serve il commercio internazionale: a consentire la specializzazione che fa sì che un paese produca i beni per i quali ha un vantaggio comparato.
Ovviamente questo è solo un esempio. Nel mondo vi sono centinaia di migliaia di beni e centinaia di paesi, ma la semplicità del principio dei vantaggi comparati, reso possibile dal libero commercio, continua a valere.È un teorema confermato da una montagna di evidenza empirica e d’altronde tutti i periodi della storia che hanno visto crescere gli standard di vita sono quelli in cui il commercio internazionale non si è chiuso.
Col trascorrere del tempo i vantaggi comparati cambiano. Inizialmente la specializzazione in «magliette» consente alla Cina di arricchirsi, e quando questo accade i salari cominciano a crescere, i costi di produzione a salire in certi settori più che in altri e i suoi vantaggi comparati cambiano. E così cambia anche la direzione dei flussi commerciali. È ovvio che la Cina non è destinata per sempre a produrre solo «magliette». Prima o poi il suo vantaggio comparato si sposta dalle «magliette» alle macchine che le producono, e poi al software per macchine che producono «magliette», e così via, evolvendo verso settori sempre più avanzati.
È la storia dell’Italia. Siamo partiti, negli anni 50, copiando lavatrici americane e poi il nostro vantaggio comparato si è via via spostato fino ad arrivare oggi alla componentistica per auto hi-tech (vedi Magneti Marelli e Comau), ai sistemi di difesa (Leonardo), al sistema dei pagamenti e ai software bancari (Nexi o Sia che produce software per le banche centrali europee), fino al fintech (ad esempio con la start up Satispay.)
Queste dinamiche continuano ad essere determinate dal principio dei vantaggi comparati e dal libero commercio: se si bloccano lo sviluppo si ferma. Certo, tutto questo comporta che alcuni settori crescano e altri declinino o spariscano. Ma la risposta non è ostacolare il commercio e frenare l’aumento di produttività globale dato dalla evoluzione della specializzazione, bensì aiutare con uno stato sociale efficiente i lavoratori che si devono spostare da un settore all’altro. Ecco perché vanno difesi i lavoratori, non i posti di lavoro. Questi ultimi cambiano, si evolvono. Lo stato sociale deve aiutare i lavoratori a partecipare a queste trasformazioni, non deve bloccarle. Non è facile, lo sappiamo bene. Ma se per difendere alcune produzioni si blocca l’evoluzione dei vantaggi comparati che sono il motore della crescita, continueremo nel nostro declino.