La Stampa, 22 dicembre 2019
NOSTALGIA DI RIVERA
Buongiorno, mister.
«Mister te sarà ti, muso de mona». Vecchia gag, la risposta immancabile del Paròn a chiunque si azzardasse a chiamarlo a quel modo. Primo elemento. Dopo un bel po’ di anni che non ci si vede, i riflessi di Prodigio sono intatti. Secondo. Gianni Rivera è fresco di laurea a Coverciano: dunque potrebbe allenare da domani.
Ma oggi a tirarlo giù dal piedistallo è un anniversario. I cinquant’anni dal suo Pallone d’oro, il primo ad un calciatore italiano. Arrivò il 23 dicembre del ’69, a premiare un’annata in cui Rivera pilotò il Milan alla Coppa dei Campioni e all’Intercontinentale. Pregherei i giovani di andarsi a rivedere l’azione dell’ultimo gol di Prati nella finale con l’Ajax, quel pallone baciatogli in fronte dal capitano con sublime nonchalance, e quella in cui Rivera entra praticamente in porta a Buenos Aires, nell’oscena finale con i teppisti drogati dell’Estudiantes. «Beh, il primo non era poi così difficile. Il secondo pericoloso, perché il portiere, Poletti, era uscito per rompere me più che per cercare il pallone. L’ho aggirato largo per salvare le gambe, e a quel punto la porta era vuota».
E sì che lo chiamavano abatino, ma quella è un’altra storia. Piuttosto ricordi, Abatino-Prodigio, che il tuo Pallone d’oro arrivò 11 giorni dopo piazza Fontana?«Come fosse ieri. Non sai quante volte mi chiesi in quei giorni, nei dormiveglia, se non fosse possibile cancellare tutto: il Pallone d’oro e piazza Fontana. Milano era diventata la mia città, com’era possibile essere felici e festeggiare in giorni terribili come quelli?».
«Mi metti in imbarazzo»
Abbraccio. E pazienza se telefonico. Com’era a quei tempi il Pallone d’oro? «Più sobrio. France Football lo comunicò alla società, non ricordo chi fu ad avvisarmi. Tempo dopo scoprii che avrei già potuto vincerlo nel ’63, dopo la prima Coppa dei Campioni, ma avevano scelto Yashin per la carriera». Tu sei oggettivamente stato un fuoriclasse. Prima di te, dalle nostre parti, Meazza e Valentino Mazzola. Dopo di te?«Un po’ mi metti in imbarazzo e un po’ dipende dai parametri. Se penso ai portieri, certamente Zoff, Albertosi e oggi Buffon. Se penso ai tempi miei, Mazzola, Bulgarelli, Mariolino Corso. Quanto dev’essere lungo l’elenco?».
Rieccolo, il Rivera che ricordavo. Dai tempi di Milanello, dalla volta che mi vide mettere in moto la Mini e mi chiese un po’ trafelato, ma con il tono che Rivera ero io e lui il giovane cronista alle prime armi, se gli avrei dato uno strappo dalle parti del Monumentale. E per un po’ divenne un’abitudine, senza che con l’incoscienza della gioventù nemmeno mi venisse in mente di alzare i massimali assicurativi.In materia di fenomeni, non sei mai andato oltre Pelè. «Perché oltre non si può andare. Aveva i due piedi uguali, per potenza e sensibilità: e in più il colpo di testa della finale del ’70. E non è finita, perché sarebbe stato anche un grande portiere. Mi ha raccontato Altafini che un giorno organizzò uno dei suoi scherzi. Truccò Pelè con barba e baffi, lo vestì da portiere smandrappato e lo piazzò tra i pali. Lo bombardarono dal limite, non ci fu verso di fargli gol, era un fenomeno anche lì».
Come la Callas e la Tebaldi
Sai Gianni, io immagino che quando noi sobbalziamo in poltrona davanti a una magìa voi fuoriclasse alziate il sopracciglio. Sei del partito di Messi o di Ronaldo?«Di Messi. Ma l’altra sera a quello stacco di Ronaldo un sobbalzo l’ho fatto anch’io». In attesa dei nipoti, almeno ai tuoi figli hai raccontato che tu e Mazzola eravate come la Callas e la Tebaldi? E che al Mondiale del ’70 qualcuno si inventò che la Tebaldi cantava il primo atto di Traviata o di Tosca, e la Callas il secondo e il terzo? Salvo tagliar fuori la Callas dalla recita finale?
«Ormai non è rimasto nessuno. Né chi ordì quella trama, nomi e cognomi, né chi la realizzò. La staffetta fu una cosa talmente senza senso che una spiegazione non l’avrà mai».
Ci mancano due brevi capitoli, che chiameremo Prodigio e Mister. A che età capisti di essere un fuori categoria? «Dentro di me, abbastanza presto. Ufficialmente, quando a 15 anni mi portarono al campo di Linate per il provino nel Milan, e a promuovermi furono Schiaffino e Liedholm che giocarono con me quella partita». Prodigio. Gli indizi portano a due che quella partitella la giocarono e da allora, amici per la pelle, non pronunciarono mai il cognome Rivera ma soltanto il soprannome. Giancarlo Danova, detto Pantera, ala del Milan e poi del Torino, e un certo Gigi Radice. Ma i veri scopritori? «Il primo fu Cornara, al settore giovanile dell’Alessandria. Uno che avrebbe potuto vantarsene, e non l’ha mai fatto. Era anche maestro di tennis, nel circolo che stava dietro alla curva dei popolari, e ha cresciuto Barazzutti. L’altro è Pedroni, che dopo il provino nel Milan mi fece esordire in serie A a 15 anni contro l’Inter: e d’accordo con Viani mi tenne a maturare in serie A ad Alessandria il campionato successivo».
Capitolo Mister. Ma come ti è venuta? «Da presidente del Settore Tecnico ho fatto i primi due corsi, per capire com’era dal di dentro. Mi ha intrigato, e ho completato l’opera. Poi ho letto che secondo le ultime ricerche l’aspettativa di vita può arrivare a 120 anni. E ho cominciato a pensare al futuro».