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 2019  dicembre 21 Sabato calendario

I misteriosi attacchi in Burkina Faso

Il Burkina Faso, fino a non molto tempo fa uno dei paesi più stabili dell’Africa occidentale, è colpito da qualche anno da attacchi molto violenti contro la popolazione locale, i militari e i dipendenti di società straniere, soprattutto nel nord e nell’est. La cosa particolare è che, nella stragrande maggioranza dei casi, questi attacchi non vengono rivendicati da alcun gruppo, e né il governo né l’esercito riescono a identificarne i responsabili. La confusione è talmente grande che nemmeno le organizzazioni umanitarie sanno con chi negoziare per garantire il passaggio sicuro di aiuti alla popolazione, che è sempre più vulnerabile agli attacchi e in balia delle guerre tra bande criminali.

Secondo i dati di Armed Conflict Location and Event Data Project (ACLED), organizzazione non governativa che si occupa della violenza politica nel mondo, nel 2019 ci sono stati 573 attacchi in Burkina Faso, più di uno al giorno, e solo una piccola percentuale è stata rivendicata da gruppi armati, soprattutto da gruppi radicali islamisti come Ansural Islam, Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin e lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Le persone uccise sono state circa 2mila, un numero sei volte superiore a quello registrato l’anno precedente, mentre altre centinaia di migliaia sono state costrette a lasciare le proprie case.

La situazione è peggiorata nel corso dell’ultimo anno, soprattutto per l’incapacità delle forze di sicurezza di proteggere la popolazione locale.

Con l’intensificarsi degli attacchi, aveva raccontato a novembre un articolo del New York Times, diverse postazioni militari nel nord del paese sono state abbandonate, provocando un aumento repentino degli sfollati interni, arrivati a mezzo milione di persone su una popolazione totale di 20 milioni. Secondo funzionari del’UNICEF citati dal giornalista Simon Marks in un altro articolo del New York Times, circa un terzo del territorio del Burkina Faso è stato colpito da scontri tra diversi gruppi armati, che hanno reso diverse zone inaccessibili alle organizzazioni umanitarie anche per la difficoltà di capire con chi negoziare per assicurare “corridoi sicuri” per portare aiuti umanitari anche in zone controllate da gruppi criminali.

Dai racconti dei sopravvissuti, molti degli attacchi compiuti nell’ultimo anno in Burkina Faso sembrano essere stati particolarmente violenti.

Lo scorso giugno, per esempio, alcuni uomini armati hanno attaccato Arbinda, una città del nord. Fati Niampa, una donna di 36 anni, ha raccontato ad Al Jazeera che gli assalitori hanno ucciso tutti gli uomini che non sono riusciti a scappare, tra cui i suoi zii e i suoi fratelli. Gli unici obiettivi sono stati i maschi, di qualunque età, anche i bambini: «Ho visto una quindicina di terroristi, ma non siamo riusciti a identificarli. Avevano le teste coperte da turbanti. Si vedevano solo i loro occhi e le loro bocche», ha raccontato Niampa, che poi è fuggita a Dori, un centinaio di chilometri da Arbinda, per ricevere aiuto dall’ONU.

A settembre c’è stato un altro attacco molto violento a Pissélé, 160 chilometri a nord dalla capitale Ouagadougou: una quarantina di uomini a bordo di motociclette e armati di kalashnikov hanno cominciato a sparare sulla folla, uccidendo otto persone e minacciando i sopravvissuti che se non avessero lasciato le loro case entro 48 ore sarebbero tornati e avrebbero usato di nuovo la forza. Nemmeno in quel caso si è saputo qualcosa dei responsabili, che non sono stati identificati.

Alcuni gruppi jihadisti operanti in Burkina Faso sono arrivati dal Mali e dal Niger, due paesi confinanti che da diverso tempo hanno gravi problemi con il terrorismo islamista.

Secondo Paul Melly, esperto dell’area del Sahel per il think tank statunitense Chatam House, l’instabilità del nord e dell’est del paese è dovuta anche all’azione di trafficanti e bande criminali comuni, e forse di ex soldati fedeli al regime dell’ex presidente Blaise Compaoré, che si era dimesso nel 2014 dopo grandi proteste popolari. Jared Thompson, analista della società Sahel MeMo, che si occupa di fornire rapporti sulla situazione della sicurezza nei paesi del Sahel, ha detto ad Al Jazeera che non rivendicare gli attacchi compiuti potrebbe anche essere una scelta strategica fatta da gruppi che vogliono mantenere un profilo basso ed evitare di attirare l’attenzione delle forze di sicurezza locali e delle organizzazioni internazionali che si occupano di terrorismo.